Pensieri ad alta voce
di Marisa Pumpo Pica
Per Papa Francesco
La speranza non delude
La notizia della morte del nostro caro Papa Francesco, ascoltata alla radio, in quella mattina del 21 aprile, mi commosse profondamente, mentre un nodo mi serrava la gola. Subito dopo arrivarono le notifiche dalle varie chat. Su quella che condivido come socia dell’Anpi (Sezione collinare “Aedo Violante”), su cui la Presidente, Luna Pisa, dava anche lei il triste annuncio, mi riuscì di scrivere soltanto questo: “Grande dolore. Non ci sono parole per descrivere il vuoto che avvertiamo tutti, nella Chiesa e nel mondo.” Sull’altra chat, degli amici della stessa Anpi (“Questo è il fiore del Partigiano”) fiorivano intanto i commenti di sorpresa e cordoglio. Anche qui annotai brevemente: “Non ci sono parole per questo grande dolore. Il Papa ci lascia tutti più soli e sconcertati. Ma dobbiamo credere nelle sue parole e nel suo ineguagliabile insegnamento: “La speranza non delude.”
Lo sgomento fu grande, per me come per tutti. E tuttavia, per un Papa come lui, che ha meritato articoli, pagine e pagine di giornali, ore ed ore di radio e di televisione, che ha visto accorrere ai suoi funerali i potenti, come i poveri e gli ultimi, di tutto il mondo, quelle poche parole non potevano bastare. Ed ecco allora l’idea di dedicare a Lui, l’uomo simbolo della semplicità e dell’umiltà, un piccolo omaggio e non parlare d’altro, se non di Lui, sulle pagine di questo nostro giornale, come un ideale colloquio tra pochi amici e collaboratori de Il Vomerese. Naturalmente, per ovvi motivi, non tutti, ma solo alcuni di questi commenti potrete leggerli qui, sulle diverse colonne di questo nostro periodico. E a queste poche, sincere e commosse riflessioni, cerco di aggiungere anche io i miei Pensieri ad alta voce che, mai come ora, sono pensieri vaganti, che vanno avanti per flash ed immagini.
Francesco, il Papa dell’umiltà.
Fu tale, fin dall’inizio, quando, nel momento solenne dell’elezione, si presentò al pubblico in modo sorprendente, con quel suo fare dimesso e quel linguaggio accattivante, come uno di noi, uno fra noi: “Fratelli e sorelle buonasera, voi sapete che il dovere del conclave era di dare un vescovo a Roma e sembra che i miei fratelli cardinali siano andati a prenderlo quasi alla fine del mondo... Ma siamo qui.”
E dalla fine del mondo, Jorge Mario Bergoglio, si è avvicinato a tutti, senza distinzione di sesso, razza, censo, religione. Questo pellegrino di pace, con quel nome da lui scelto, Francesco, che era già tutto un programma, tutta una missione, ha voluto, fin dagli inizi, portare una ventata d’aria nuova nella Chiesa. Questo mondo - e con esso la Chiesa - voleva rivoluzionarlo, rivoltarlo come un calzino. E ci è riuscito. Almeno in parte. Da Gesuita a Francescano, aveva già cambiato se stesso, prima ancora di provare a cambiare gli altri, a rinnovare la fede e la Chiesa. Con il suo operato incisivo ci ha insegnato che la Chiesa non è una fortezza, ma un ospedale da campo, come ha ricordato il nostro Arcivescovo, Don Mimmo Battaglia. E dunque richiede sforzi e sacrifici, da affrontare quotidianamente, con semplicità.
Semplicità, modestia, umiltà sono state le cifre della sua vita e del suo pontificato. Semplicità nel rifiuto di abitare nel palazzo apostolico per rifugiarsi in Santa Marta, modestia nell’abbigliamento, nella rinuncia agli orpelli, umiltà nei gesti, nei modi, negli incontri, nel comportamento. É la semplicità del pastore che sente l’odore delle sue pecore e le guida con amore e protezione. E tanto calore, ma anche colore, nelle parole, sia nel rapportarsi agli altri, come in quel suo modo di raccontare il Vangelo, sull’orma di Gesù, quando parlava agli apostoli. Un linguaggio, il suo, dal timbro fortemente evangelico perché, pur nella semplicità, era da interpretare, proprio come vanno interpretati i Vangeli. Con il cuore, con la fede, con l'Amore.
Il Papa della tenerezza
Tutto questo gli ha permesso di diventare il Papa della gente e delle genti, il Papa degli ultimi e per gli ultimi, il Papa che ai sofferenti, agli scartatidi ieri, di oggi, di sempre, sapeva rivolgersi con affetto, con tenerezza, con semplicità. Un Papa tenero, negli incontri con gli anziani e con gli ammalati, che fa la lavanda dei piedi ai carcerati, che abbraccia una coppia in lacrime, che ha appena perduto una figlia, che non si stanca di accarezzare con tanta dolcezza i bambini. Era il fratello, il padre, il nonno di tutti noi ed ogni suo gesto era improntato alla semplicità e al calore umano, come il suo linguaggio.
Ma quelle parole semplici diventavano spesso lapidarie, come sentenze. E lui stesso diventava pietra d’inciampo per alcuni, come è stato opportunamente sottolineato.
Un papa scomodo
Pietra d’inciampo, per chi non voleva capire, pietra d’inciampo nel suo non essere catalogabile, nell’essere talvolta controcorrente. La semplicità nasceva da una grande spiritualità che gli ha permesso di diventare un leader religioso, in grado di far sentire sempre la sua voce sui difficili scenari geopolitici. Non era solo semplicità, dunque, era forza d’animo, capacità di battersi per le giuste cause, per la difesa della pace e per evitare gli ulteriori rischi di una guerra mondiale, che egli, più degli altri, aveva paventato, per averla intravista nei tanti focolai di guerra, accesi qua e là. É stato tra i primi a sospettarla e a temerla.
Un Papa non catalogabile non merita, oggi, l’ipocrisia di taluni governanti che gli hanno tributato omaggio ai funerali, ma dimenticano di non aver dato ascolto ai suoi insegnamenti e alla sua incessante richiesta di giustizia sociale e di pace, andata a vuoto.
Il Papa della Pace
Lui, uomo di Pace, pellegrino di solidarietà e di riconciliazione, per ironia della sorte, ha dovuto vedere, durante i dodici anni del suo pontificato tante guerre per le quali non si dava pace. E continuava ad invocarla, questa pace, a pregare per i popoli in guerra, per le loro sofferenze, “per la martoriata Ucraina”, a ripetere, senza mai stancarsi di farlo: “La guerra è sempre una sconfitta.”I conflitti sono stati la croce del suo Pontificato, una spina nella carne. Forse nessun altro Pontefice ha dovuto combattere come lui, con forza indomabile, contro tanti venti di guerra.
Un Papa per il sociale
Il suo ministero, fondato sulla solidarietà, sull’impegno sociale, oltre che religioso, fa di lui un Papa speciale, come tutti abbiamo sempre riconosciuto, che ha cercato di unire coscienze, popoli, religioni, pur nel rispetto delle differenze. Egli ha saputo toccare le corde più profonde dei nostri cuori, varcando le frontiere delle più diverse spiritualità e professioni di fede, diventando il Papa dei credenti e degli atei. Il suo è stato uno sguardo sempre attento alle periferie del mondo, non solo sul piano geografico, ma anche e soprattutto sul piano esistenziale. L’enciclica Fratelli tutti ne è una testimonianza.
Forse non è un caso se i suoi funerali, dove sono accorsi i potenti del mondo, sono diventati un evento geopolitico, che potrebbe anche essere il preludio di una situazione internazionale nuova, tale da segnare la fine dei conflitti fra i popoli e il loro avviarsi verso un mondo riappacificato.
Un Papa ambientalista
Non possono essere ignorati, tra l’altro, i suoi appelli per la difesa dell’ambiente, con i quali ha richiamato l’uomo al rispetto della natura, contro ogni forma di inquinamento. L’enciclica Laudato si’ potremmo definirla un’Enciclica ecologica e sociale in cui si auspica una conversione ecologica, attraverso un rinnovato rapporto uomo-natura-società. La sua vocazione ecologica, peraltro, era già contenuta nella scelta del nome Francesco. Chi più del fraticello di Assisi ha amato ed esaltato il Creato in tutte le sue forme ed espressioni e nel rapporto con l’uomo? La Terra è in sofferenza, ripeteva, e chi paga è la povera gente. Gli ultimi della società e del mondo. Di qui l’appello a tutti per la sostenibilità ambientale. “Se non sai guardare con amore il Creato non saprai guardare nemmeno le persone. Seminare la terra significa seminare l’amore.”
Il Papa e i giovani
La tenerezza che mostrava per i bambini si riversava anche sugli adolescenti e sui giovani. A loro sempre il suo pensiero e i suoi insegnamenti: Fate chiasso, vivete con gioia, sorridete, il sorriso è vita. Non fatevi rubare la speranza. E ai giovani egli affidava il compito di curare l’ambiente, lottare contro la violenza ed il bullismo, spendersi per la pace nel mondo, senza mai dimenticare di dare voce a chi voce non ha...
La grande lezione del silenzio
Era anche un Papa che non amava il chiacchiericcio, inutile e sovrabbondante, al quale talvolta ci si abbandona e ci ricordava spesso come fosse anche importante, di tanto in tanto, fare ricorso al silenzio, cogliere le voci del nostro cuore, rimanere in ascolto di noi stessi, in raccoglimento, soprattutto nel momento del dolore o, comunque, nelle circostanze difficili: Non gettate sempre tutto fuori. Ci sono situazioni, in cui il silenzio conta e rappresenta tanto nella nostra vita. Ci permette l’incontro col Signore. Anche una preghiera, detta magari mentalmente, può ricongiungerci a Dio… Dire sempre tutto, gettare sempre tutto fuori, parlare, parlare, correre, essere sempre in movimento e in affanno dietro le cose, dietro le persone, dietro i fatti è nella “normalità” della nostra vita di oggi. Ma qualche volta occorre anche fermarsi, cogliere il silenzio dentro noi stessi, apprezzarlo e capirne il valore. Équanto ha più volte raccomandato Papa Francesco.
Questi e tanti altri suoi insegnamenti sono e rimarranno chiusi nei nostri cuori e, per chi crede, come ha giustamente detto il cardinale Giovan Battista Re, “Quella del Papa non è una morte ma una rinascita in cielo, un ritorno al Padre celeste, perché tutto passa, ma l’Amore no. La sua è stata una vita compiuta che meritava davvero di essere vissuta”.
Certamente lascia un vuoto incredibile nella Chiesa e nei cuori un Papa come questo, missionario e visionario, che ha vissuto il pontificato non come strumento di potere, ma come servizio alla Chiesa e ai fedeli. Un Papa che si è sempre avvicinato alla gente e che questa vicinanza l’ha cercata, pur nella sofferenza degli ultimi tempi. L’ha voluta ad ogni costo, perfino nel giorno che ha preceduto la sua morte, quando, dal loggiato di San Pietro, ha voluto dare a tutti noi gli auguri di una Buona Pasqua. E il giorno dopo quel saluto e quell’augurio, non c’era più.
Pressante rimane, a questo punto, l’interrogativo: chi ci sarà dopo di lui e come saprà guidare la Chiesa? L’ultima parola spetta ora al Conclave perché accada quanto gli stessi cardinali hanno auspicato, ovvero che lo Spirito Santo possa illuminarli nello scegliere l’uomo giusto a raccogliere la difficile eredità di Papa Bergoglio.
Grande è l’attesa…
Aprile 2025
Pensieri ad alta voce
di Marisa Pumpo Pica
L’altra America
Abbiamo sempre desiderato di andare in America, visitarla, conoscerla e soggiornarvi, magari anche per un periodo un po’ più lungo rispetto a quanto di solito si programma per una vacanza estiva. Viverla, insomma, al di là di quella conoscenza che può derivare dalla consuetudine con libri di storia o di autori americani, a noi molto cari.
Ora non più.
Questa di oggi non è l’America del nostro sogno giovanile, la terra della democrazia, dei diritti, della libertà.
Questa, delineata ed avviata dal Presidente Donald Trump, è un’altra America, antidemocratica, vessatoria e rapinatrice.
Antidemocratica, perché divide e non unisce i popoli.
Vessatoria, per i dazi annunciati e messi in atto da Trump, con la conseguente guerra commerciale da lui avviata, pericolosa e dannosa per tutti, anche per lo stesso popolo americano.
Rapinatrice, per le sue intenzioni di appropriarsi delle terre rare dell’Ucraina, con il pretesto di mediare una pace tra questo popolo e la Russia. E, tra l’altro, le intenzioni predatorie di Trump non si fermano qui, se aggiungiamo i progetti palesati sulla striscia di Gaza e sulla Groenlandia, nonché su Canada, Messico e Panama.
Inoltre, i suoi recenti attacchi ai media e alla libertà di stampa, le interferenze nella politica degli Stati a lui meno affini, come la Francia e la Germania, l’intemperanza di molti atteggiamenti confermano una visione più simile a quella dei regimi totalitari che alla tradizione americana
Tutto il mondo democratico dovrebbe insorgere contro il bullismo di Donald Trump e, purtroppo, tutti ne pagheranno le conseguenze. Infatti, già subito dopo l’annuncio e l’avvio dei dazi, si è verificato un vorticoso tracollo delle borse, con l’affondo, prima fra tutte, della stessa Wall Street.
Come reagire?
Tanto per cominciare, guardando per il momento, in casa nostra, i danni, per l’Italia, saranno ingenti, nell’ordine di miliardi, per i dazi che peseranno sull’export e, quindi, tra l’altro, sul settore della componentistica meccanica, delle automobili, dell’agro-alimentare, del manifatturiero, della moda e del lusso, come per quello chimico e farmaceutico.
Dobbiamo ponderare la risposta, per salvaguardare le nostre imprese. Quello dei dazi è stato un messaggio preciso, lanciato da Trump, oltre che alla Cina, all’Unione Europea, non una semplice intenzione, come a qualcuno, improvvidamente, è piaciuto credere o far credere. Il piano è quello di scardinare l’Europa, vista come nemica, per piegarla ai suoi fini, lasciando pensare, ancora oggi, che potrebbe trattare separatamente, con accordi bilaterali con i singoli Stati.
Contro queste sciagurate iniziative antidemocratiche, occorre che l’Europa corra ai ripari, e l’Italia con essa, in modo fermo e con prontezza, come non è stato fatto fino ad oggi. È fondamentale reagire con rapidità e compattezza, per ritrovare strade unitarie e procedere verso scelte decisive, attraverso un’azione equilibrata e razionale. Lo suggeriva, in questi giorni, anche il nostro Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
L’Italia, naturalmente, dinanzi a questo scenario, per nulla rassicurante e per molti versi imprevedibile, ma di certo con esiti negativi, deve calibrare opportunamente, ma in modo deciso, la propria azione di governo, per contrastare le minacce e gli attacchi di Trump.
Sia ben chiaro che non c’è in noi nessun sentimento di antiamericanismo, anzi, e lo dimostra ampiamente l’incipit di queste nostre riflessioni. Abbiamo sempre considerato amico il popolo americano condividendone lo spirito e gli ideali democratici, ma pensiamo, nel contempo, che ora gli Americani stessi dovrebbero reagire, in difesa del loro passato e della loro storia.
Il sogno americano
Ci sarà un’altra America, che non sia questa voluta da Trump? Ce lo chiediamo tutti.
Ce lo auguriamo, da Europei, anche noi che scriviamo. Chi scrive, infatti, è un’europea, che, come già anticipato, ha desiderato sempre conoscerla e viverla l’America in quella corsa contro il tempo, tipica dell’attivismo pragmatico del popolo americano. Corsa contro il tempo, che è stata anche una nota caratteristica della sua vita, intensa e laboriosa, a dimostrazione di non essere una “parassita,” e smentendo in pieno l’accusa trumpiana degli “Europei parassiti.” Termine ingiusto ed infondato che ci fa sentire profondamente offesi e che nessun Presidente degli Stati Uniti avrebbe mai pensato di usare nei confronti di tutti noi, senza aspettarsi una reazione del nostro governo... che non c’è stata...
Un’altra America è ancora possibile?
Ce lo auguriamo, oggi, tra il disappunto e lo sgomento, portando nel cuore la delusione, inevitabile, dinanzi al nostro sogno americano, caduto miseramente in frantumi.
5 aprile 2025
IN CRISI DI PANICO
di Luciano Scateni
...è giunta mezzanotte, si spengono i rumori..." sì ma in silenzio assordante anche l'urlo potente, tipo Tarzan, di Giorgia dal balconcino del social casalingo (peccato, palazzo Venezia a quell'ora è chiuso): ossessionata dall'incubo Albania, dal gigantesco flop dei centri di detenzione che sottraggono centinaia di milioni alle nostra tasche e hanno il solo, stupefacente merito di regalare lussuose, prolungate vacanze a fortunati poliziotti italiani, la signora, presidentessa del consiglio del governo del nulla, a costo di infiammare pericolosamente l'ugola, ha urlato, con crescente livello di decibel: "ce la faremo, ce la faremo, ce la faremo, a costo di stare io in Albania giorno e notte". Svanito il sogno, Ella, nottetempo, si è destata in crisi di panico, colpa della memoria che ha girato il dito nella piaga del nuovo fallimento del suo sogno di gloria sulla pelle dei migranti. Duro il risveglio, ira funesta, aggressione selvaggia alle 'zecche rosse', all'ineccepibile sentenza che ha vietato la deportazione dei 43 in Albania. Democratici italiani, allarme: non manca molto che l'iracondia della destra provochi una guerra civile. Messaggio intimidatorio della premier ai suoi followers (anche ai giudici?): "Volete la piazza?" Cioè, a chi aspettate a manifestare contro i giudici? Il senso di questa 'uscita' non si discosta molto dall'incentivo di Trump ad assalire il Parlamento degli Stati Uniti.
(Febbraio 2025)
Pensieri ad alta voce
di Marisa Pumpo Pica
Il peggio e il meglio della TV
Ballando con le stelle
Del peggio non v’è mai fine... Fu questa la frase che pronunciai, molti anni or sono, quando, trovandomi in commissione ad un concorso a cattedra di Filosofia, fui costretta a notare che i candidati erano abbastanza impreparati. Però, subito dopo, dovemmo constatare che i successivi candidati erano ancora più impreparati di quelli che li avevano preceduti. Ebbene cosa c'entra questo con il peggio e il meglio della TV? C'entra, c’entra, perché l'altro giorno discutevo con alcuni amici su quali fossero i migliori e i peggiori programmi televisivi dell’anno che si era appena concluso. Non ebbi dubbi: per me uno dei peggiori, se non il peggiore in assoluto, è stato “Ballando con le stelle”, giunto, quest’anno, alla diciannovesima (!!!) edizione. Vi rendete conto? Mi domando come abbiano fatto i telespettatori a seguire 19 edizioni di uno spettacolo stucchevole, banale, se non addirittura insulso. Qui non ballano le stelle ma spesso volano stracci. Si litiga su tutto: la giuria con i concorrenti e i concorrenti tra di loro, i giurati fra loro, i giurati, ancora, con quella sorta di giuria esterna, che fa capo ad Alberto Matano e che vede, lancia in resta, Rossella Erra ed altri due giurati, ballerini o ex ballerini, distribuire il tesoretto (sic). Il tesoretto, per chi non lo sapesse, è quel punteggio conquistato dai “ballerini per una notte” (sempre tutti dieci, che sappiano o non sappiano ballare). Un punteggio da offrire, alternativamente, a chi già ha raggiunto i primi posti o a chi resta ultimo, per spiazzare tutti gli altri, così, senza ragione alcuna o, almeno, senza che sia dato scoprirla... Regina incontrastata, con i suoi colorati e svolazzanti foulard, la già citata Rossella Erra che, da “ambasciatrice del pubblico”, quale era nel programma pomeridiano di Rai 1 “Vieni da me”, condotto da Caterina Balivo, è assurta a dispensatrice di punteggi, da dividere con Matano, nonchè di baci ed abbracci da dispensare a concorrenti e pubblico, quegli “amici vicini e lontani”, alla vecchia maniera, che ci ricordano tanto il Nunzio Filogamo dei tempi gloriosi della TV pubblica.
Ma non finisce qui, perchè la Rossella passa spesso per molti altri programmi televisivi, a mo’ di strabiliante opinionista. E che volete farci? Abbiate fiducia e non disperate, voi che amate tanto la TV. La strada di ognuno di voi può, di punto in bianco, essere costellata da successi e voi, improvvisamente, baciati dalla dea bendata, come è accaduto alla nostra Rossella. E tuttavia, non ci sorprende tanto questo, quanto l'essersi, Alberto Matano, prestato a questo ruolo di così scarso rilievo e livello, da dover competere con la Erra... Ma tant’è... Contento lui, lo siamo anche noi, per solidarietà...
In ultimo, la tanto attesa finale di Ballando, si è tinta di giallo: è stata caratterizzata, infatti, dalla fuga di Guglielmo Mariotto, improvvisa e clamorosa, molto commentata e discussa da media, giornali e social. Un’assenza inspiegabile. L’istrionico giurato scompare improvvisamente, va via senza avvertire né dire nulla a nessuno, lasciando un vuoto nella giuria e nello spettacolo, pur avendoci abituati a scomparire, ogni tanto, sotto il tavolo e dietro le sue sciarpe, anche lui. A noi per la verità, il Mariotto non è parso di gran peso nella giuria né siamo rimasti sorpresi da questa ventata clamorosa da star, da questa uscita di scena da Primadonna, col preciso intento di concorrere o addirittura superare, con una (s)comparsata, la tanto temibile Selvaggia Lucarelli, invero in formato molto ridotto e migliorato, in occasione di questo diciannovesimo anno. Ma, è risaputo, la donna, come il vino, migliora con l’età.
Nulla di nuovo sotto il cielo di “Ballando con le stelle”. Siamo abituati alle stravaganti sceneggiate dell’iconico Mariotto con quella sua palettina, che gira e rigira fra le mani, tra il dieci e lo zero, ma certamente non è stata una bella cosa. Non lo è stata e lo ha puntualizzato anche la conduttrice, quella Milly Carlucci, osannata da tutti perchè conosce quattro, cinque lingue, ma forse, per impararle, ne ha dimenticata una, quella che più le appartiene e che porta avanti nei suoi discorsi, nell’ ”aulico” contesto di “Ballando com le stelle”. Ma tant'è, accettiamo tutto, accettiamo tutto con grande spirito di sopportazione ed ecco allora che, dopo tanto fracasso, dopo tanto clamore dei media, la Carlucci è arrivata, nell’ultima serata, a raccontarci come stavano le cose, a dirci che Mariotto aveva dei problemi personali (e ce ne eravamo accorti da tanto!), che bisognava capirlo, che da anni faceva parte del gruppo e che la sua probabile esclusione dalla giuria sarebbe stata “una spina nella carne”. Ed è, comunque, tutto cancellato con un vigoroso colpo di spugna. Tutto dimenticato. Tutto messo a tacere. Mariotto rientra con un bel fascio di rose per la Carlucci ed è di nuovo lì, a continuare a fare le sue smorfie da quella sedia della giuria sulla quale non sta mai fermo come se avesse chiodi sotto il deretano. E si è chiusa, così, la diciannovesima edizione di “Ballando con le stelle”, il peggio della TV...
E dire che, quando era iniziato questo spettacolo, moti anni fa, a qualcuno piaceva l'idea di poter fare un po' di allenamento, sia pure soltanto visivo, relativamente al ballo. Qualcun altro veniva preso dalla nostalgia dei suoi vecchi tempi. E, poiché il ballo è legato, per molti, alla gioventù, c’era anche chi pensava, attraverso questo programma, di ballare anch’egli fra le stelle, pur rimanendo a casa, sul divano o in poltrona, davanti alla TV. Grande, grandissima delusione: il ballo c'entra come il cavolo a merenda. Bisogna ascoltare i piagnistei, vedere le lacrime, assistere a quei panni che dovrebbero lavarsi in famiglia e che, invece, si lavano in piena TV. Cosa c'entra questo col ballo? Quelli di “Ballando con le stelle” vi diranno, come infatti hanno più volte ribadito, che c'entra, perché il programma non consiste solo nel saper ballare bene, ma nell'aprire cuore, mente, anima, far conoscere tutto, i propri sentimenti, le proprie emozioni agli spettatori, far sapere tutto ciò che riguarda ciascuno e che solo il ballo può mettere in evidenza... Come? Non è dato sapere...
Un grande baraccone da circo, questo “Ballando con le stelle”, dove le stelle non si vedono, offuscate da guitti e marionette, da una bambola di porcellana che gira in circolo come sulle giostrine dei bimbi, che dovrebbe condurre il gioco e che, invece, continua a girare in circolo, compassata e serena, tra liti, pettegolezzi e gossip, tra sfuriate veementi fra giurati e concorrenti, con un fiume di danaro, nostro, che alimenta il tutto.
Un plauso sincero, di tutto cuore, per le sue ottime esibizioni da ballerina provetta, va rivolto, tuttavia, a Bianca Guaccero, vincitrice assoluta, (in)contrstata, di questa edizione di “Ballando con le stelle.” Ce l’ha fatta da sola, senza aiutini né tesoretti.
Per oggi ci fermiamo al peggio della TV. In un altro momento, parleremo del meglio, se ci sarà possibile...
(Gennaio 2025)
Pensieri ad alta voce
di Marisa Pumpo Pica
Giovani e vecchi
Una possibile osmosi?
Il mese di novembre si apre con il ricordo pungente dei nostri cari, che non sono più con noi e ci si fa scrupolo, più che mai, di andare al cimitero, per rinnovare con loro un dialogo ideale, mai interrotto. Ma pensiamo, qualche volta, anche ai nostri vecchi, in particolare a quelli che, pur vivi, sono già morti? Morti dentro, perché lasciati nella solitudine, nel silenzio, nell’abbandono?
La speranza del vecchio
Pensiamo mai a quei vecchi, cui, talvolta, è stato sottratto tutto, pensieri, oggetti cari, ricordi e perfino la speranza che, si dice, sia l’ultima a morire? E non è così… A volte, invece, è proprio la speranza a morire, prima di loro. Ed è questo che essi non vogliono. A questo si ribellano.
“Ma che cosa più, ormai, può sperare un vecchio, se solo la morte lo attende?” - dice qualcuno con tono indifferente. No, anche il vecchio, pur sapendo che la vita sta per lasciarlo, ancora e proprio per questo, spera. Spera nell’affetto dei suoi cari, spera che non gli strappino i ricordi più belli, prima del dovuto, spera nella serenità di quel momento cruciale, che vuole sia lieve e lo avvolga come una nuvola. Spera e si dispera, nella cinica indifferenza del mondo.
La saggezza del vecchio
Ci rendiamo conto qualche volta di quanto torna utile la saggezza del vecchio a noi e, soprattutto, ai nostri giovani, spesso così intristiti e soli nella falsa moltitudine del virtuale?
A dire il vero, ci sono vecchi, che sembrano crogiolarsi nelle loto sofferenze, inariditi ed incupiti nel dolore, ed altri, invece, che ci forniscono un esempio eclatante di bella senectus, di antica memoria, come l’inossidabile Corrado Augias, un gigante che porta sulle spalle il peso degli anni, con elegante disinvoltura. Con la sua Torre di Babele, unprogramma molto seguito su la7, entra, sempre lucido, pacato e sorridente, nella nostra Torre di Babele, affrontandone le problematiche più spinose, attraverso dibattiti stimolanti e, soprattutto, con pregevoli interviste, condotte con garbo ma anche con piglio ironico e sagace. Quale interlocutore migliore potrebbe esserci per i giovani, per un’esperienza culturale in comune?
L’esperienza del vecchio
Uno scrigno prezioso che lascia venir fuori piccole perle di saggezza, se appena riusciamo ad aprirlo. A dire il vero, i giovani, forse ancor più della generazione di mezzo, ovvero degli attuali adulti, ivi compresi i loro genitori, sembrano ricercarlo, in talune occasioni, il dialogo con i vecchi, con i nonni, soprattutto, con cui talvolta si confidano, condividendo ricordi lontani della loro giovinezza e chiedendo consigli e suggerimenti, per le difficili sfide che li attendono. E nel dialogo si ritrovano uniti e vicini. La cosa può apparire strana e sorprendente, ma non lo è affatto. A pensarci bene, il giovane e il vecchio rientrano, oggi, fra le categorie più fragili ed indifese, in cui appaiono maggiormente evidenti le crepe di una società allo sbando. Su di loro ricadono molto spesso colpe ed errori di cui non sono responsabili: i vecchi non lo sono più e i giovani non lo sono ancora. Gli uni e gli altri fuori dalle alternative e dalle scelte di chi ha il potere. Ovviamente questo non lo si può affermare per tutti. Non si può generalizzare, dinanzi alla complessità di un tessuto sociale così contorto e distorto come l’attuale. Ci sono, purtroppo, anche casi e situazioni, che la cronaca nera ci consegna, in cui il vecchio, come il giovane (e il giovane oggi più che mai), ha le sue responsabilità e cede alla tentazione della violenza, dell’odio, della vendetta, sentimenti spesso immotivati e cruenti, che rientrano negli insondabili abissi dell’io.
La Biblioteca dei sentimenti
E tuttavia, a parte questi casi estremi, il vecchio, nella nostra visione, che - lo riconosciamo – a qualcuno appare forse idilliaca, potrebbe avere un ruolo significativo nella nostra società. Egli è o dovrebbe essere il custode, solerte ed accorto, di quella Biblioteca dei sentimenti, in cui oggi poco si entra e, se pur lo si fa, è soltanto per uno sguardo veloce, per far capolino ed andar via di corsa. Abbiamo sempre pensato, invece, come sarebbe importante, oltre che educativo, parlare spesso ai nostri giovani di questa ideale biblioteca. Ed ecco la grande sorpresa di qualche tempo fa quando, smanettando con il telecomando, ci siamo imbattuti, per puro caso, in una trasmissione televisiva (su Rai 3) che aveva proprio questo titolo e nella quale - felice coincidenza! - si dibattevano le tematiche a cui molto spesso pensavamo, per questa ideale biblioteca che avevamo in mente. Temi e problematiche che ci sarebbe piaciuto condividere con i nostri giovani. In questa trasmissione, si discuteva di libri, del significato vero e profondo delle parole, dei sentimenti, delle aspirazioni, dei sogni e di cose di questo genere, con alcuni giovani presenti, e partecipi, nello studio televisivo.
Consumismo ed omologazione
Ma, al di là di questi casi fortuiti, chi parla più ai giovani di sentimenti, di affetti, di cuore, di anima? Di valori, insomma, che non siano quelli di un consumismo esasperato al quale essi sono stati educati, secondo un clichet ed una omologazione per cui l’avere conta molto più dell’essere, la scarpa di marca all’ultima moda più di una vita umana.
Una opportuna progettualità
Al dilagare allarmante della violenza giovanile. che è ormai sotto gli occhi di tutti e troppo spesso assurda ed immotivata, dovrebbe far fronte lo Stato, attraverso scuole, associazioni ed enti parrocchiali, promuovendo occasioni di incontri fra le due generazioni. Sarebbe opportuno, ovviamente, un iter progettuale, serio e concreto, atto a colmare il vuoto di un disagio, a superare quella esclusione sociale, che entrambe le generazioni, per motivi diversi, percepiscono e vivono e, in gran parte, determinata dall’onnivoro prevalere dei social.
Una osmosi ideale
Ben venga, dunque, il dialogo costruttivo fra giovani e vecchi, quanto meno perché si potrebbe realizzare l’auspicio che la tradizionale parsimonia del vecchio riesca a bilanciare l’opulenza consumistica del giovane, onde ottenere che la ricchezza dei sentimenti e dei valori, che un vecchio vorrà trasmettere, faccia da contrappeso ad una eventuale povertà educativa in cui troppo spesso viene lasciato un giovane. Due cuori, insomma, che dovrebbero incontrarsi in questa ideale biblioteca, per superare solitudine, disagio, esclusione sociale che, come si è appena detto, sono i mali più evidenti di queste due generazioni, pur così distanti e diverse fra loro. Una possibile osmosi, una contiguità spirituale, in virtù della quale un giovane, avido di sapere, si volga verso un vecchio, desideroso di offrire e, viceversa, un vecchio abbia dal giovane l’opportunità di riscaldare il suo cuore, per evitare aridità e solitudine.
In questa ideale osmosi il giovane conquisterebbe maturità e il vecchio ritroverebbe la perduta giovinezza.
(Novembre 2024)
Pensieri ad alta voce
di Marisa Pumpo Pica
Lettera aperta al Presidente del Consiglio
Cara Giorgia,
sono il direttore responsabile di questo giornale e voglio rivolgermi a te in modo del tutto informale, se pur con il riguardo che si deve sempre alla “persona”, in quanto tale e, ancor più, quando essa riveste un ruolo istituzionale.
Per prima cosa mi preme precisare che, se guardi con attenzione il nostro giornale, troverai che manca la pagina Politica. Questo perché, fin dal suo primo vagito (ormai siamo prossimi ai vent’anni, dal 2005, su carta stampata, dal 2012, on line), ci siamo posti l’obiettivo di essere una voce libera, nel rispetto dovuto a noi stessi ed ai lettori che ci seguono con stima, simpatia ed affetto. Non siamo, però, apolitici, perchè ci rendiamo conto perfettamente che la politica, nel suo significato più antico (etimologico, soprattutto) e più vero ed autentico, entra sempre nella vita di tutti noi, l’attraversa in ogni sua forma e ci coinvolge oltre ogni misura, oltre ogni limite.
Siamo solo fuori dalle schermaglie dei partiti, spesso infruttuose, dagli estremismi, sempre pericolosi, dalle lottizzazioni, dalle lobby, dai giochi di potere. Ed è per tutto questo che possiamo dire sempre quello che pensiamo, senza veli nè ipocrisie.
Cara Giorgia, veniamo a noi. Vorrei darti alcuni piccoli suggerimenti, anche se scrollerai le spalle pensando che, di sicuro, non ne hai bisogno, specie poi, se ti pervengono da una sconosciuta. E tuttavia voglio darteli ugualmente, come un piccolo vademecum da offrirti in dono, anche perché sono convinta che il confronto con gli altri, con chicchessia, è sempre importante e non dobbiamo mai sfuggire ad esso. E questo è già il primo.
“Io sono Giorgia, sono una donna, sono…” e di qui a seguire. Era il tuo inno di guerra in campagna elettorale, quando promettevi tante cose ai tuoi elettori. E ce l’hai fatta. È indubbio, ce l’hai fatta, da sola e più degli altri. Ma, se può essere facile conseguire un traguardo, raggiungere il potere, non è altrettanto facile conservarlo a lungo. E poi il potere logora, anche se qualcuno aggiunge, scherzosamente, “chi non ce l’ha”... No, il potere davvero logora e chi ci sta intorno ne può approfittare. E qua, come vedi, ho messo, un pò alla rinfusa, un altro paio di suggerimenti, diretti e indiretti.
Ce l’hai fatta e ne vai fiera. E questo, da donna, te lo concedo. Sei intelligente. Un momento… Non ho elementi per affermarlo o per negarlo. Potrei presumerlo. Nessun politico, a quanto pare, e men che mai oggi, si è sottoposto ai test per la misurazione del quoziente intellettivo. Non ne ha bisogno. E, se pur lo avesse fatto, non ci sono mai pervenuti i relativi risultati, pur avendo a disposizione, oggi come in passato, un’ampia e valida strumentazione ad hoc (test, schede, moduli e quant’altro). Ed è un peccato! Sarebbe stata una gran bella cosa da inserire nella propaganda e, magari, nella scheda elettorale. Un piccolo lumicino per orientare meglio gli elettori, e forse anche te nella formazione della squadra. Che ne pensi? Non sarebbe stato utile inserire anche questa, fra le tante novità messe a punto dal tuo governo, come riforma della giustizia, premierato, autonomia differenziata, piano Albania per fermare l’esodo dei migranti nelle nostre terre e cose del genere? Su tutto questo vi siete spesi con fiumi di parole ed “abbondanza di chiarimenti” su cui, però, i vostri elettori ancora non si raccapezzano e restano perplessi. Ma tant’è... anche questo un suggerimento come un altro.
Tu sei furba, cara Giorgia, e potresti ancora farlo, per eliminare un paio di elementi del tuo governo, come, per fare un esempio, quegli “infami” della “congiura per la Consulta”, che si sono fatti scoprire, sulla chat, nei loro accordi segreti per eleggere come consigliere il tuo fedelissimo Francesco Saverio Marini. No, non infami, come li hai chiamati. Perdonami, mia cara, quello è un termine da usare per i criminali, per i mafiosi, non per gli uomini del tuo partito. Bisogna correggere il tiro: “basso livello di quoziente intellettivo, ma alte capacità di corruzione.” Pazienza! Dovevi stabilirlo prima quali doti dovessero possedere quelli della tua squadra di governo. Anche questo non mi sembra proprio un suggerimento da buttar via.
“Io sono Giorgia, sono una donna...” Sono furba ... Sei furba? Questo non ricordo se lo dicevi, ma certo ora io non potrei dirlo. Anche questo è un termine da espungere perché, come non ho risultati circa la misurazione del quoziente intellettivo dei politici, così non posso conoscere quali stratagemmi, raggiri, manovre, a bordo e fuori bordo, stia pensando di mettere in atto il tuo governo, con la tua acquiescenza o a tua insaputa. Come potresti sempre dire … se fossi furba davvero. Ma se lo sei, noi, per quanto sopra, non conoscendo sotterfugi e manovre, non possiamo dirlo. Noi sappiamo solo quanto è dato sapere alla luce del sole e, dunque, che hai militato, fin da giovanissima, nella destra e che Berlusconi ti volle come ministro, il più giovane ministro, nella sua squadra di governo. E oggi ce l’hai fatta! Nulla è più indubbio di questo. Sei il Presidente del Consiglio. Lascio il maschile perché so che ti piace e, a dire il vero, piace anche a me e non ci trovo nulla da gridare allo scandalo, a dispetto delle accese femministe di oggi. O tempora o mores! I tempi cambiano, ma io resto fedele alla lingua italiana: nelle grammatiche su cui ho studiato si leggeva che il termine indicante una funzione o un ruolo rimane invariato, al maschile.
Ma torniamo a noi. Di certo, accorta lo sei. Hai collocato al tuo fianco una bella squadra di molti amici, conoscenti e congiunti. Parentes, clientes, famuli? La differenza conta poco. Basta dire fedelissimi, se non si tien conto degli “infami”, di cui sopra, che, complottando con insipienza per venirti incontro, si sono fatti scoprire come dei ragazzini.
Ciò detto, riprendo con le linee del mio vademecum,
Non guardiamo sempre ai difetti e agli errori degli altri. Badiamo ai nostri e cerchiamo di correggere i primi ed evitare i secondi.
Non gridiamo sempre contro dossieraggi, spionaggi e congiure. La storia ne ha conosciute tante, soprattutto di queste ultime. Ormai non devono più sorprenderci, specialmente se non ci riguardano e non ci colpiscono.
E tu, soprattutto, non sentirti sempre vittima, trovando a ridire, insieme ai tuoi, soprattutto di quei poveri magistrati, che avete preso di mira. Sono oberati di lavoro, dalla mattina alla sera - anche per mancanza assoluta di personale, ed è questo ciò a cui bisognerebbe provvedere d’urgenza - perdoni l’inciso, il ministro Nordio. E invece, cosa accade? Accade che, quando, sacrificando molto del loro tempo, completano lo studio dei grossi faldoni accumulati, si sentono dire che hanno portato a termine un’inchiesta ad orologeria. Suvvia, un po’ di rispetto per il lavoro degli altri non guasta, se vogliamo che gli altri rispettino il nostro.
Per mantenere rapporti corretti con le opposizioni, evita di considerare critiche e commenti negativi semplicemente come “slogam” e “propaganda”, da cancellare con un colpo di spugna. Almeno uno sguardo potrebbe bastare, per riconoscere che contengano anche un fondo di verità e che, magari, possa essere il caso di misurarsi con essi.
Mai più governo ladro, gridavi, al tempo dei tuoi comizi. Mai più governo ladro e menzognero ti chiedono, oggi, i tuoi elettori, che si aspettano da te il rispetto delle promesse elettorali e una gestione oculata e trasparente. I proclami lasciamoli alla campagna elettorale: aumentare i posti di lavoro e migliorarne le condizioni, far crescere il pil, incrementare i finanziamenti e portare avanti i progetti con quei fondi del Pnrr, che il povero Giuseppe Conte, cappello in mano, era andato a chiedere all’Unione Europea.
I proclami lasciamoli ai candidati durante i comizi e i programmi ai governanti. E che sappiano realizzarli con altrettanto entusiasmo, con uguale convinzione, serietà ed impegno, come per la campagna elettorale.
Mia carissima Giorgia, che vuoi farci? Il mondo, come i governi, cambia. Cambia e peggiora, fra armi e guerre di ogni genere, travolto nelle spire della violenza. Una violenza senza motivi né giustificazioni. Oggi si ruba, si aggredisce, si uccide per una cuffietta da 14 euro. Anche questi sono i problemi da affrontare, la violenza minorile, e non solo, che, come i fiumi in piena, dilaga ed esonda nelle strade delle nostre città. Questa sì, esonda davvero, non il magistrato che fa il suo dovere ed applica la legge, anche se ciò sembra, talvolta, non piacere… (I magistrati esondano,sic il ministro Nordio al tg 3, 19ottobre 2024). Ma perché tanta paura da vedere sempre i magistrati come un pericolo? Perchè non rispettare le cariche, i ruoli, gli altri poteri dello Stato, previsti da una Costituzione democratica? Sono ben altre le esondazioni. Sono quelle dei fiumi, che provocano disastri e morti, da prevedere ed evitare in un programma serio di governo. Sono altri i problemi da affrontare, come la povertà che aumenta oltre ogni misura, la mancanza di lavoro, la criminalità, organizzata e non, l’insicurezza delle nostre strade e tanti ancora, che ben conosci e ai quali bisogna far fronte, in una sfida molto impegnativa. Come? Linearità e trasparenza sono le finalità cui devi tendere e ricorda, poi, e fallo presente alla tua squadra che anche le parole possono diventare pietre, armi da maneggiare con cautela, con prudenza, con stile, per un saggio governo della polis.
Che altro dirti? Sei il Presidente del Consiglio, ma per quanto tempo non è dato sapere. “Incrociamo le dita. Avanti tutta”. Questo lo lasciamo dire a te ...
Senti di non potercela fare? La squadra di governo comincia a traballare e ciascuno sembra seguire vie diverse, per conto suo, con manovre nemmeno tanto nascoste? Perchè non riconoscere che tangenti, richieste e pagate, e mazzette sotto banco ci sono sempre state e non ne sono esenti nemmeno i puri del tuo partito? Perchè negare che la corruzione serpeggia anche tra le fila dei tuoi? Se sei una colomba candida e pura, fra tanti falchi, è sufficiente fare un’accurata pulizia del Palazzo. Una buona ristrutturazione e tutto si sistema, senza il ricorso a quei bonus, così “odiosi e costosi”, inventati sempre dal povero Giuseppe Conte, per colpa dei quali, ora, nella manovra finanziaria, ti dici costretta a recuperare tanti “miliardi sperperati” attraverso un gravoso ridimensionamento dei fondi.
E chiudo qui, con l’ultimo suggerimento, scherzoso ed ispirato al titolo di un celebre film. Attenta a quei due e ... in bocca al lupo ... tra falchi e colombe...
(Ottobre 2024)
Pensieri ad alta voce
di Marisa Pumpo Pica
Tra social e fuori onda
“La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente fra il dolore e la noia (…).” Ci perdonerà Arthur Schopenhauer, il filosofo più amato, soprattutto fra i giovani, se prendiamo in prestito la sua affermazione, non per “travisarne” il significato, che resta sempre valido nel contesto del suo pensiero, ma solo per adattare la citazione a nostro uso e consumo, modificando i poli di oscillazione. I tempi cambiano e, con essi, situazioni, circostanze e congiunture dell’esistenza umana.
Oggi l’uomo oscilla fra due tentazioni opposte: i social e i fuori onda. Si rifugia tra i primi per comunicare e relazionarsi con l’altro, almeno dovrebbe... Si lascia scappare i secondi, i fuori onda, quando la ragione allenta i freni inibitori e allora tutto è possibile. Tutto è perduto e si naufraga tra le onde dell’incoscienza più irresponsabile. Due tentazioni, due manifestazioni opposte, che nascono dallo stesso bisogno: sfogarsi, comunicando tutto sui social o lasciandosi scappare quello che si pensa e si vuole finalmente dire, nel dormiveglia della coscienza. E, si badi bene, i fuori onda non avvengono solo negli studi televisivi, quando si parla pensando che ci si trovi a telecamere spente, ma anche nella vita di tutti i giorni o in molti momenti di essa e, se non tutti, quanto meno alcuni fra noi riconosceranno di averli vissuti. Per quanto concerne i fuori onda televisivi un esempio clamoroso fu, di certo, quello di Andrea Giambruno, l’ex first gentleaman, compagno della premier. E, per i fuori onda non televisivi, ma “sfuggiti”, in pubblico, un classico, tra i più recenti, è stato quello del governatore della nostra regione, Vincenzo De Luca, quando nel protestare contro Giorgia Meloni, ha fatto ricorso ad una parolaccia irripetibile, supponendo di non essere microfonato.
Glissiamo su entrambi i fuori onda, per ragioni di stile giornalistico e di vita. Quando le questioni scivolano troppo sul personale, non ci competono e non ci appassionano. Potrebbe, però, riguardarci, perché fornisce qualche dettaglio in più sul profilo istituzionale dei nostri politici di oggi, il successivo battibecco Meloni-De Luca e, limitandoci ad un veloce commento che ci viene spontaneo, ricorriamo ad un colorito detto napoletano “Fanno a chi mette ’a coppa” nonché a quella simpatica macchietta del nostro impareggiabile Totò, che si concludeva con la celebre frase “Lei non sa chi sono io... ”
La dittatura dei social
Il discorso sui social, invece, presenta molte sfaccettature, vista la piega che hanno preso, forse ben diversamente da come era nelle intenzioni di coloro che hanno inventato questo prodotto tecnologico dei nostri giorni. Potevano essere un’ottima forma di comunicazione, sociale, appunto, e ci si è armati, invece, di clava, per menar giù botte da orbi. Hanno dato vita all’influencer, al follower, con lazzi, schiamazzi e tifoserie da stadio. Dovevano creare comunità, ma così non è stato. La comunità accoglie, avvolge, sostiene. Il mondo dei social si è trasformato, ormai, in un vero e proprio campo di battaglia, con scambi di accuse ed offese che volano come proiettili, dai quali chi è più bravo riesce a difendersi, evitandone o parandone in tempo i colpi, mentre chi è meno forte, più fragile ed indifeso, ne esce schiacciato, talvolta irrimediabilmente.
La deriva dei social
In questi casi estremi le conseguenze non sono soltanto dannose, ma anche catastrofiche e drammatiche, come la cronaca sempre più spesso ci aggiorna. Valga per tutti il suicidio della ristoratrice di Lodi, Giovanna Pedretti, morta annegata nel fiume Lambro, per non aver retto al clamore e alle accuse che si erano levate contro di lei e contro il buon nome del suo ristorante. E questo non è l’unico caso di morte, in cui i social hanno potuto avere la loro parte. Non è l’unico, anche se tra i più sconcertanti. Sì di social sipuò morire, come qualcuno ha scritto...
L’ uomo, lo sappiamo bene, è dotato di due forze, quella creativa e quella distruttiva e, per quanto concerne i social, nel circuito influencer-followers, crea e distrugge con la stessa celerità.
La creazione del mito
Crea soprattutto miti, spesso senza alcuna consistenza, di punto in bianco, osannando persone, che diventano personaggi dalla sera alla mattina. E questi personaggi, così mitizzati dal coro delle voci unanimi, dettano usi, costumi, linguaggi, moda e quant’altro mai sia possibile, irretendosi nel groviglio del gossip, scivolando verso le ricette di cucina casalinga delle nonne, anche queste mitiche, o levandosi in altofino alle invenzioni medico-scientifiche più assurde, ma suggestive, Il tutto nell’ambito di un circuito influencer-followers che si rivela ampiamente discriminatorio e manipolatore. Non solo, ma, la Storia ce lo insegna, i miti hanno breve vita e anche le statue di robusto marmo possono cadere in frantumi, precipitando, se il basamento non ha solidità. E così il mito, creato dal bombardamento dei social, può essere distrutto con la stessa celerità con cui è stato creato e contro di esso si infierisce con un’aggressività inimmaginabile. Non vale la presunzione d’innocenza, nel mondo dei social. Nessuna pietà per chi cade. Parole come comprensione, perdono, clemenza, sono, ormai, fuori dal loro vocabolario. Non vige nessuna etica compassionevole. Si sa, tutti possiamo sbagliare Si sbaglia, si cade, bisogna rialzarsi, ma a volte è difficile poterlo fare da soli, occorre anche trovare accanto qualcuno pronto ad offrire il proprio aiuto. Ciò molto spesso non accade e, invece, questo è il momento in cui tutti dovremmo scoprire il valore ed il vero significato della parola solidarietà.
Ovviamente non si può generalizzare né fare un unico discorso per tutti gli utenti dei social. Anzi, le differenze sono notevoli. Ci sono coloro che ne sono affascinati, condizionati al punto tale da non poterne fare più a meno, quelli che ne fruiscono con parsimonia, prudenza e distacco e quanti li disdegnano, tenendosene semplicemente lontano.
La cultura corale
La cultura di un essere umano non può mai confondersi con una cultura corale. E non a caso usiamo qui il termine con-fondersi, che ha anche a che vedere con la parola confusione.
La vera cultura, a nostro avviso, non è mai corale, ma sempre individuale e personale, pur essendo specchio dei tempi e dei popoli che li attraversano.
Non abbiamo mai amato i social, lo confessiamo, anche se ne riconosciamo, comunque, l’utilità, in taluni casi. E non li abbiamo amati proprio per la deriva cui essi, nessuno escluso, sono andati incontro. Ci sembrano grossi baracconi, su cui viene esposta merce di scarso valore e dove tutto si muove sulla scia della dinamica amore-odio portando, di volta in volta, in alto e in basso i protagonisti, creati e distrutti, fatti oggetto, prima, di grande amore e poi di odio altrettanto feroce. Grossi carrozzoni su cui ognuno può salire a proprio piacimento, comportandosi a suo modo, senza rispettare regole o norme, che non siano quelle imposte da ciascun influencer, come più gli aggrada. Ognuno di questi carrozzoni ha i passeggeri e, costoro, il conducente che si meritano, così come Machiavelli riconosceva avvenisse per gli Stati e i relativi sudditi.
Non amiamo i social, lo riconosciamo. E questo perchè abbiamo notato subito, fin dall’inizio, l’appiattimento di una cultura corale che essi hanno testimoniato, una cultura intollerante, che non ammette tesi individuali, dissenso, contestazione. Il dissenso, se motivato e fondato su valide argomentazioni, esprime coraggio, trasparenza, libertà. E per questo non a tutti piace.
La cultura dei social rivela, poi, la sua palese incoerenza, che si manifesta nel momento in cui, mentre appare corale, risulta essere, invece, lo specchio assurdo di un ego smisurato ed esasperato, che vuole imporsi agli altri, con discutibile supponenza e prepotenza. È la cultura dell’influencer che, col suo codazzo di followers, si atteggia a regista di ogni scena e situazione, in cui agli altri non resta altro ruolo se non quello di “figuranti” o “comparse”. Un grande Supermercato dei sentimenti, dove tutto si dà per scontato, tutto è oro colato e dove, invece, molto è frutto di mistificazione ed ipocrisia. E parlando di Supermercato, il nostro pensiero va a quella vecchia stadera che si usava tanti anni fa (ma si usa ancora?) per pesare quei grossi sacchi di juta. Anche qui sui social tutto si pesa e tutto si misura e la mercanzia è davvero pesante, come le pietre che si lanciano, l’un l’altro, senza esclusione di colpi.
Non abbiamo amato i social perché non amiamo la cultura corale. È una cultura che non ci appartiene, che non possiamo sentire come nostra, per tutta una serie di motivazioni che qui possiamo solo sintetizzare. La cultura corale non dà sufficiente spazio al singolo e non ha nulla a che vedere con la cultura universale, che s’intreccia, invece, con la cultura individuale. Il singolo individuo non può essere assorbito dal gruppo, dal coro, deve saper esprimere le sue capacità di lettura critica della realtà circostante e dell’universo, farne oggetto di autonoma riflessione, ripercorrendo, nel più ristretto ambito di consapevolezza personale, l’intero cammino storico dell’umanità. E questo già basterebbe a rimarcarne la diversità con la cultura corale e a caratterizzare, di contro, la cultura che ciascun individuo crea per se stesso. Si aggiunga a ciò anche il fatto che la cultura corale dei social punta sulla quantità piuttosto che sulla qualità. Dimmi quanti followers e quante visualizzazioni hai e ti dirò chi sei. L’essenza di un essere umano, in quanto persona, non è in un numero, in una cifra. È nelle sue qualità, lo ribadiamo, individuali, umane, culturali, è nella capacità di elaborazione, appunto personale, di quella cultura e di quei valori che, attraverso secoli, sono giunti fino a lui. La cultura corale dei social, inoltre, segue una linea orizzontale. La cultura propria di un individuo segue un percorso che ha una lunga linea verticale, dall’alto, da remoto, fino a noi. Ma ci fermiamo qui perché il discorso si farebbe troppo lungo e complesso e lo rimandiamo, magari, ad altro momento.
I social specchio dei tempi?
Qualcuno potrebbe obiettare che il giudizio che abbiamo dato dei social potrebbe risultare troppo severo dal momento che essi, in definitiva, sono lo specchio della società attuale. Noi, invece, siamo convinti che la loro deriva ne rappresenti un’aberrante deviazione a cui occorre porre rimedio.
E pertanto non possiamo, nel concludere queste nostre brevi annotazioni, non auspicare che i social siano soggetti a controlli più seri ed efficienti, soprattutto per una maggiore tutela dei nostri giovani e, in particolare, degli adolescenti. Nell’attesa che ciò avvenga, vogliamo augurarci che i giovani stessi sappiano coglierne in tempo i pericoli e siano in grado di trovare, in piena autonomia ed affidandosi alla ragione e alla consapevolezza, vie e forme diverse per una loro migliore socializzazione.
(Giugno 2024)
La Sezione collinare Anpi “Aedo Violante”
di Marisa Pumpo Pica
Come nasce la Sezione collinare Anpi “Aedo Violante”?
Nasce per moto spontaneo, come un fiore di campo, un seme portato dal vento, ma quel vento ha un nome, Mario Coppeto, un nome “collaudato” da una politica seria ed efficiente, per la quale si è speso sempre in prima persona. Già Presidente, per due mandati, della Municipalità 5 “Vomero-Arenella” e poi consigliere comunale, ha molti amici, che lo stimano e gli sono sinceramente affezionati. A questo gruppo di amici, a cui sono lieta di appartenere, nel rivolgere gli auguri per il nuovo anno, egli, fin dagli inizi di gennaio, comincia a parlare della possibilità di far nascere una sezione collinare dell’ANPI, Associazione Nazionale Partigiani Italiani, prestigiosa associazione, già presente, con tante altre sezioni, territoriali e provinciali, su tutto il territorio nazionale. Propone di intitolarla ad Aedo Violante, illustre partigiano e giurista insigne, morto da alcuni anni. Immediato è il consenso, che si allarga a macchia d’olio, a dimostrazione che il Vomero e, con esso, tutta la zona collinare, non è solo luogo di bar, pub e ristoranti, ma anche fucina di menti fervide ed intellettualmente operose, grande serbatoio culturale, forse talvolta sommerso, per mancanza di spazi pubblici e di altrettante sedi di aggregazione.
Con l’unico sussidio di una chat, si parla, si discute, si ragiona su finalità ed obiettivi da perseguire, molti dei quali ancora, ed oggi più che mai, di grande spessore ed attualità.
Si stabilisce una data, per una prima adunata di adepti, il 4 febbraio, una domenica mattina. Il tempo, inizialmente non sembra promettere, ma spunterà il sole... e ci si ritroverà in tanti...
Un abbraccio solidale fra generazioni diverse, tutte calamitate dall’entusiasmo.
Grande l’affluenza di pubblico e numerose le prime iscrizioni, presso la sede dell’Accademia di Recitazione “Arena”, diretta da Piera Violante, che ci accoglie, con generosa disponibilità, insieme ai due fratelli, Vittorio, venuto da Roma, per i saluti di apertura, e Giancarlo, che terrà l’apprezzata relazione, integralmente pubblicata qui, sul nostro giornale (in Cultura, Febbraio 2024 n.d.r.).
L’incontro segna il primo tassello, cui sono seguite le necessarie formalità, dopo l’approvazione da parte della sezione provinciale, presieduta da Ciro Raia.
Presso la libreria “IoCiSTo”, una prima assemblea dei soci, con la consegna delle tessere agli associati. Alla sala “Silvia Ruotolo” della Circoscrizione “Vomero-Arenella”, la seconda assemblea, con la designazione delle cariche. Poi la partecipazione di alcuni rappresentanti alla “Conferenza nazionale di Organizzazione delle Anpi del Sud”, a Paestum (6 e 7 aprile 2024). Allo stato, in cantiere progetti ed incontri per una grande manifestazione, con un presidio in Via Luca Giordano, 128, dinanzi alla scuola elementare “L. Vanvittelli”, luogo simbolo, per celebrare il prossimo 25 aprile.
Perchè la sezione collinare è intitolata ad Aedo Violante?
Non potremmo chiudere qui questo nostro breve scritto senza chiarire le ragioni della intitolazione della sezione collinare ad Aedo Violante, partigiano illustre ed insigne giurista, docente di Diritto Amministrativo e Diritto degli Enti Locali.
E ciò soprattutto per i nostri giovani perché dal suo esempio di vita e di lotta sappiano capire ed apprezzare il valore delle battaglie per la difesa degli universali diritti umani, spesso ingiustamente calpestati, in dispregio della nostra Costituzione. Ai nostri giovani dobbiamo ricordare che altri giovani, prima di loro e per loro, hanno combattuto per tutti noi, spianandoci la strada verso la libertà e l’uguaglianza. Chi appartiene alla mia generazione sa bene quale significato abbiano avuto la Resistenza e le Quattro giornate e qualcuno forse ancora ne porta i segni nel proprio vissuto e nelle dolorose memorie familiari, ma è tempo di passare il testimone ai giovani affinché, pur conoscendo anch’essi quei fatti, che ormai sono storia, ne assumano piena consapevolezza per agire nel presente ed incidere sul futuro.
Chi era Silio Italico Aedo Violante? Ci piace riportare, qui di seguito, un breve profilo di Silio Italico Aedo Violantetratto da un articolo pubblicato su Repubblica (ma tanti altri ce ne furono) in occasione della sua morte, con note attinte dalla sua biografia, presente in rete. “Napoli, 22 marzo 2019. Si è spento a 94 anni il professor Silio Italico Aedo Violante. partigiano, giurista di fama, docente di Diritto, commendatore della Repubblica. Lascia un grande vuoto nel mondo culturale napoletano. L'associazione nazionale partigiani ha annunciato la notizia.
Nato ad Avezzano (AQ) il 15 gennaio del 1925, frequentò il liceo Sannazaro di Napoli. Giovanissimo si impegnò nella lotta antifascista auspicando un futuro di pace e democrazia per il Paese. Aedo, come lo chiamavano amici e familiari, affiancò allo studio e all'impegno politico il sostegno alla famiglia, prendendosi cura della madre e del fratello più piccolo mentre il padre era impegnato in guerra. Negli anni terribili della seconda guerra mondiale, appena liceale, "promosse”, insieme ad altri giovani vomeresi,. tra i quali la sua futura moglie e compagna di vita, Rosalia Ruggi d'Aragona, un'accanita campagna antinazista, sfidando le ronde dei militari e diffondendo, mediante volantini ciclostilati, notizie preziose per i cittadini sulle reali condizioni del Paese, in un momento storico in cui vigeva una ferrea censura sull’informazione e sulla diffusione di dati "sensibili"
"Il 28 settembre 1943 - prosegue la nota - Aedo, appena diciottenne, fu arrestato con altri studenti del Sannazaro e condotto presso il commissariato del Vomero, in attesa di essere consegnato al comando tedesco di Piazza Dante, per essere probabilmente deportato, se non giustiziato, allorché, in una fattoria di Via Belvedere, fu ucciso un soldato tedesco. Una disposizione del Colonnello Scholl prevedeva che, in caso di omicidio di un soldato tedesco, tutti gli uomini italiani presenti nel raggio di 200 metri sarebbero stati fucilati. Aedo affrontò il commissario del Fascio e gli fece comprendere che neanche la sua vita sarebbe stata risparmiata all'imminente arrivo del commando tedesco. L'uomo, benché collaborazionista ligio alle disposizioni ricevute, si lasciò convincere dalla dialettica del futuro giurista e cedette alle richieste di consegnare al gruppo di studenti in fermo armi per potersi difendere e si mise egli stesso in salvo. Aedo e gli altri studenti, dal commissariato, allora sito in Via Luca Giordano, affrontando le pattuglie tedesche, raggiunsero, in Curia, il Colonnello Antonino Tarsia. che al Sannazaro aveva organizzato il Quartier Generale della Resistenza Napoletana. Iniziavano tra i giovani studenti del Vomero le Quattro Giornate di Napoli. Il resto è sui libri di Storia.”.
(Aprile 2024)
Pensieri ad alta voce
di Marisa Pumpo Pica
Una favola moderna
La zeppola di San Giuseppe e i migranti
Il giorno di San Giuseppe, festa del Papà, si celebra con la zeppola e, poiché è noto che “il santo dura otto giorni”, scriviamo oggi, augurandoci che, vincendo ogni pigrizia, i nostri lettori possano e vogliano leggere almeno nel corso dell’intera settimana…
“I migranti vanno aiutati a casa loro”. È questo il facile slogano costruito ad arte da chi vuole sbarazzarsi facilmente di quei poveri sventurati che, per bisogno, per fame, per guerra o per quant’altro, che non sta a noi giudicare, vengono a “darci fastidio in casa nostra, sottraendo lavoro agli Italiani.” Ed è anche questa la retorica che marcia in coppia con lo slogan. Nelle more, gli emigranti, quasi “briganti”, nell’immaginario di costoro, muoiono in gran numero nelle nostre acque, con i divieti degli ultimi anni appena trascorsi e con le attuali limitazioni, imposti, gli uni e le altre, alle navi di Emergency che, tuttavia, non hanno mai smesso di prodigarsi per metterli in salvo. In tutto questo, viene fuori, ora, un patto con l’Egitto, sempre nell’ottica di aiutarli in casa loro... In qual modo, in quali termini, ancora non è dato sapere, come, altresì, ancora non si riesce ad avere giustizia, dallo stesso Egitto, sul caso di Giulio Regeni.
Pare che ci sia un progetto europeo di aiuti per 7,4 miliardi di euro per l'Egitto, destinato ai migranti.
“Ma la zeppola in tutto questo cosa c’entra?” si chiederanno, perplessi, i nostri lettori. C’entra, c’entra.
Tanto per cominciare anche San Giuseppe, con la sua sposa, era un migrante,
inoltre, abbiamo appena appreso dal web la bella favola delle zeppoline di don Umberto Russo, un vecchio pasticciere il quale, dopo un’intera vita di lavoro, desiderando il meritato riposo e volendo chiudere il negozio, ha pensato di rivolgersi ad una cooperativa, “Terra e Sale ”, che fa parte di un Consorzio con finalità di economia sociale (Sale della Terra) L’attività viene, quindi, ceduta ad una cooperativa di migranti, dopo aver loro insegnato come fare le sue squisite zeppoline, molto apprezzate nel circondario.
Siamo a Benevento e la storia del nostro pasticciere è tale da far coniugare tradizione e integrazione, non solo per la riuscita di una buona zeppola, ma anche per evitarne l’estinzione e dare lavoro e dignità ai migranti.
La storia inizia nel 1958, Umberto Russo ha appena dieci anni e lavora nella pasticceria Bianchini, al rione Libertà, dove comincia ad imparare l’arte della zeppola, di qui passa a lavorare presso la pasticceria D’Auria, e vi resta fino al giorno della partenza per il servizio militare. È benvoluto dal proprietario, il quale, nel salutarlo commosso, gli promette di riassumerlo, al suo ritorno, e di cedergli perfino la gestione del locale quando sarebbe venuto il momento di andare in pensione. Le cose, poi, non vanno proprio così. Al ritorno dalla leva, il proprietario non è più in vita e la vedova non può mantener fede alla promessa del defunto, avendo anche lei le sue difficoltà da fronteggiare. Fra le alterne vicende della vita, Umberto Russo continuerà sempre a lavorare, ritornando, poi, alla pasticceria D’Auria, su invito della proprietaria, fino ad aprirne una sua, in cui continuerà a sfornare dolci vari, con le immancabili zeppoline che rendono bene e lo rendono (il gioco di parole non è casuale!) anche famoso nella zona. E non solo. Ormai sono passati circa sessant’anni. Col suo lavoro e con la moglie, sempre accanto per dividere con lui, ansie, preoccupazioni e fatica, ha allevato le figlie, che si sono laureate. È tempo di chiuder bottega, di cedere l’attività. Lavorare, fin dall’infanzia, per un’intera vita, non è cosa da poco. Gli anni e la stanchezza si fanno sentire, ma non vorrebbe veder “morire” le sue zeppoline, che gli hanno dato lustro e gloria. Che fare? C’è quella cooperativa che si occupa di migranti. Insegnare loro il mestiere? Non è quello che dovrebbe fare ogni buon artigiano per non vanificare del tutto il proprio lavoro? Ed è così che si conclude la bella favola moderna. I migranti lavorano oggi le zeppoline Russo e zio Umberto va ancora, quasi tutte le mattine, a controllare, verificare che il lavoro proceda bene e che il matrimonio fra tradizione e integrazione funzioni alla perfezione, come ha funzionato il suo con l’avveduta consorte.
Come per ogni favola che si rispetti, a noi non resta che concludere “E vissero tutti felici e contenti.”
(Marzo 2024)
Pensieri ad alta voce
di Marisa Pumpo Pica
Le Frenesiadi - Sanremo Festival
Ebbene sì. I Greci, fra tanti giochi e feste, avevano le Olimpiadi, i Romani i Saturnalia e noi, oggi, abbiamo le Frenesiadi. È questo il termine che i nostri Pensieri ad alta voce in questo momento ci spingono a coniare per definire l’atmosfera che il Festival di Sanremo crea intorno a noi. Trasmissioni, programmi, conduttori radiofonici e televisivi, stampa, social, spettatori, tutti invasi da una frenesia che, per settimane e mesi, non sembra placarsi. Né prima, né durante, né dopo, col Prima, Dietro e Dopo Festival e, quest’anno, anche con l’Aristonello di Sciuri (Rosario Fiorello ndr). Tutti, o quasi, nel vortice dell’attesa.
Per la verità occorre dire che, negli ultimi tempi, questo avviene per il Festival, come per molti altri eventi, che si susseguono, giorno dopo giorno, di qualsiasi natura essi siano, gioiosi, tristi o luttuosi, per i quali veniamo bombardati, in una girandola di notizie, smentite, contestazioni, polemiche, ritrattazioni e gossip senza fine. Una sorta di contagio nazionale, accentuato, ovviamente, dall’amplificazione dei media, con le ospitate e le comparsate dei più diversi personaggi, depositari sempre del fuoco sacro della Verità. Veniamo colti tutti da una smania, quasi morbosa, di sapere, cogliere i dettagli, i retroscena, approfondire. Il che non guasta. Anzi, una sana curiositas, per tornare agli Antichi, è stata sempre principio di conoscenza, nonché di vero umanesimo (Homo sum ... e tutto ciò che concerne l’uomo mi appartiene).-
Dunque, anche noi non abbiamo disdegnato il Festival. Lo abbiamo seguito per tutte le cinque serate, fino a notte inoltrata, con la sua simpatica appendice dell’Aristonello. Siamo, però, sempre quelli del giorno dopo. Amiamo seguire gli eventi. Alla vecchia maniera. E per gli eventi, seguiti minuto per minuto, leggere, scrivere e... far di conti. E i conti si fanno sempre dopo… Senza addendi non c’è somma.
Amiamo parlare quando il clamore si è attutito perché, nel momento in cui il clamore è alle stelle, nel vivo delle polemiche e delle contestazioni, la voce di ciascuno si alza più alta di quella dell’altro e, nella confusione, c’è scontro. Occorre il silenzio perché nasca la riflessione. Senza ascolto reciproco non si giunge mai al confronto. Chi è alla guida di un’imbarcazione, sia essa una nave o una piccola barca, deve tenere sempre stretto fra le mani il timone, per non essere trascinato in alto mare dai flutti. È per questo che, a Festival concluso, abbiamo voglia di capire dove va la nostra musica, i suoi percorsi, le mete, le aspettative. E dunque ci piace ascoltare, se e quando ci sono, i messaggi, gli impegni, i progetti dei cantanti e degli autori. La musica, da sempre, è questo: luogo del cuore o, come ha pur detto il maestro, Leonardo De Amicis, unguento dell’anima, ma anche, aggiungiamo noi, bisogno di comunicazione, denuncia, condivisione, come alcune canzoni dei nostri giovani ci hanno lasciato intendere.
Diodato, infatti, di cui abbiamo apprezzato, nella sua perfezione, l’esecuzione, oltre che il testo, ha opportunamente chiarito con un commento, di poche, stringate parole, rilasciato il giorno dopo il Festival, che cosa è per lui una canzone precisando che la canzone non è solo di chi la scrive o la esegue, ma anche di chi l’ascolta e ne fruisce. Ed è davvero così. Se ti prende il cuore, una canzone è tua e di tutti. E non muore mai, come è accaduto per tante canzoni, che passano di generazione in generazione.
Del resto, da sempre il Festival non è “solo canzonette”. Ha anche i suoi contenuti profondi, magari dentro una musica assordante. Fai rumore per farti sentire. Vèstiti in modo estroso per stupire. Fai salti sul palco per fermare l’attenzione di chi ti guarda. Una nota di narcisismo, tipica dell’artista, non guasta. Accadeva con Renato Zero, Zucchero, Vasco Rossi, per citare almeno qualche nome. Ed è così ancora, con i nostri giovani di oggi. Si canta e si denuncia perché il Festival, oggi come ieri, rispecchia la società, con le problematiche del momento, e viceversa. Un esempio per tutti Ghali. Con la canzone Casa mia, vuole ricordarci che, casa mia casa tua, siamo tutti sotto lo stesso cielo e che, per goderne tutti, al di là di nascita, razza, lingua, religione, è necessaria la pace. E tutti noi, piuttosto che alzare muri, fronti divisori e sollevare polemiche, con comunicati senza senso, dovremmo impegnarci per assicurarla al mondo intero.
La parola d’ordine a Sanremo è sempre la stessa: non conta vincere, ma partecipare, per cui ci saranno sempre i “vincitori” della proclamazione ufficiale dell’ultima serata e quelli “effettivi”, con le canzoni che, come si è già detto, portiamo nel cuore per non dimenticarle più. Ognuno di noi, è fuor di dubbio, vede il Festival e ascolta le canzoni a modo suo, ciascuno secondo la propria sensibilità e i propri gusti. Noi abbiamo apprezzato, oltre che Diodato e Ghali, anche Fiorella Mannoia, una vera signora della canzone italiana, che si distingue per classe e bravura. Sarebbe stata auspicabile una migliore collocazione in classifica, ma ha portato a casa un dono prezioso, il meritatissimo, prestigioso Premio Sergio Bardotti, per il miglior testo. Con la sua Mariposa, parole forti, serie, accompagnate dauna musica gioiosa, moderna, dai ritmi latineggianti, ha “dialogato” con tutte le donne, di ogni estrazione sociale. E con lei, Annalisa, Irama, Loredana Bertè (Premio della critica Mia Martini, conferitole dalla Stampa) e Mr. Rain. La sua Due altalene è lo struggente colloquio d’amore di una madre con il figlio che non c’è più. Brave le ospiti, una Gigliola Cinguetti, che festeggia i sessant’anni di carriera con la stessa grazia ed eleganza di quando, giovanissima, non aveva “l’età per cantare” e le co-conduttrici, come Giorgia e, in modo particolare, Lorella Cuccarini, nella sua fantastica e meravigliosa esibizione danzante, in apertura della quinta serata.
Un discorso a parte va fatto per Angelina Mango e Geolier, ovvero Emanuele Palumbo. i quali, molto diversi fra loro, ma accomunati dalla giovanissima età, si sono disputati il podio e la vittoria all’ultimo sangue, sarebbe il caso di dire, dividendo il pubblico, in sala e da casa, nella giornata delle cover e in quella finale.
Angelina Mango, brava, sicuramente, padrona della scena e del palco, a noi è piaciuta soprattutto nella serata delle cover, quando ha cantato, in modo commovente, la splendida canzone La rondine, in un sofferto ed ideale dialogo col padre, il compianto Pino Mango, voce eccellente della canzone italiana.
Per la serata delle cover da segnalare anche Alfa. che ha aggiunto forza e vigore giovanile alla suggestiva interpretazione della canzone Chiamami ancora amore, nel meraviglioso duetto con il grande Roberto Vecchioni. Anche qui un intenso ed ideale passaggio del testimone. E tutto ciò dimostra come sia giusto dare spazio ai giovani, ma anche quanto sia opportuno che i giovani tengano conto della “lezione” di chi li ha preceduti. Il che è possibile quando il recupero del passato avviene attraverso la contaminazione con le istanze del mondo giovanile.
È un discorso educativo che ha un grande significato solo nel riconoscere il valore dello scambio intergenerazionale.
Il caso Geolier, invece, va affrontato, in via preliminare, con una considerazione seria: il culto che bisogna avere sempre per la lingua napoletana che non può mai essere oggetto di divulgazione frettolosa ed improvvisata, come a noi è apparsa, in fin dei conti, la canzone P’me P’te, scritta in modo, a nostro avviso, inaccettabile per un Festival e, meno che mai, per una vittoria finale. A voler essere benevoli, lasciandosi trascinare dall’onda campanilistica, si potrebbe prendere atto della giovane età dell’autore, ma non si può non riconoscere in lui un tentativo maldestro, nel presentare una canzone di questo tipo. Qualcuno ha voluto trovare una giustificazione alludendo ad un presunto napoletano, scritto in un linguaggio artistico, ovvero un napoletano d’arte, di cui non abbiamo contezza, nonostante i nostri studi sulla lingua napoletana. Si è parlato di rispetto, di impegno, di coraggio. Chiamare in causa questi termini ci sembra questione di lana caprina. È la canzone napoletana, con la sua storia millenaria e, soprattutto la lingua napoletana, che meritano rispetto nel maneggiarle, impegno nell’affrontarne lo studio e, più che coraggio, tanta umiltà nell’approccio ad entrambe. Al di là di ogni eccesso campanilistico (certamente anche a noi avrebbe fatto piacere che Napoli fosse prima in classifica a Sanremo), bisogna riconoscere che, se il giovane Geolier, come ha sostenuto, voleva, con questa canzone portare in auge la lingua napoletana, il suo intento è andato in senso contrario. Il discorso, poi, si complica anche per altri motivi, che tirano in ballo, per prima cosa, la possibilità di accesso della canzone napoletana in un Festival della canzone italiana, che dovrebbe a questo punto, per par condicio, accogliere anche le canzoni scritte in altre lingue regionali. Un elemento di tipo formale che si aggiunge a tutto il resto.
Tanto rumore per nulla sarebbe il caso di chiedersi.
Vale la pena tanto clamore quando da settimane e mesi si dava già per scontata, quale risultato ultimo, la vittoria finale di Angelina Mango? La domanda sorge spontanea, per dirla alla Lubrano. Valeva la pena montare il grande baraccone del Festival, con cinque serate di ascolto di ben 30 canzoni, fino a notte inoltrata? La risposta spetta al direttore artistico, il buon Amadeus, al quale pur vogliamo bene, riconoscendogli anche l’impegno per il gran lavoro affrontato. Soltanto lui potrebbe spiegarci perché non sarebbe stata possibile una preselezione più stringente ed efficace per una migliore riuscita del Festival. Sarebbe stato preferibile portare il numero a 15, nell’interesse degli stessi cantanti. Essere ultimi su 15 non è la stessa cosa che esserlo su 30. Minori illusioni comportano minori frustrazioni. Lo dimostra il caso di Sangivanni che ha reagito, mettendo forse in discussione (vogliamo immaginare solo temporaneamente) se stesso e la carriera artistica da poco intrapresa. Non tutti hanno la forza di accettare sconfitte e rialzarsi. Noi gli auguriamo di cuore che ciò avvenga tempestivamente.
Inoltre, vorremmo chiedere ad Amadeus se non sia il caso di cambiare il sistema delle votazioni, con l’esclusione di questo televoto a cui si ricorre costantemente, anche per altri spettacoli del genere, col supposto principio democratico che, alla fine, rivela solo il suo substrato economico, a tutto detrimento della specificità culturale del voto di una seria ed appropriata giuria tecnica, che potrebbe essere la sola in grado di giudicare una canzone, sulla base di una reale meritocrazia. Il televoto è figlio del nostro tempo, del clamore, dello share, dei social, dei follower. Un programma si giudica dagli ascolti. Una persona dai follower. Dimmi quanti follower hai e ti dirò chi sei. Suona, così, oggi, ogni forma di conoscenza, ogni approccio, ogni relazione fra le persone. E chi non ama i social, chi non ha follower o non li cerca, dove resta confinato? In quale limbo? Chi si occuperà di lui? A quale destino è votato? A quale la sua canzone e la sua musica? Noi siamo quelli del giorno dopo anche per questo, perchè il giorno dopo consente di riflettere su tante cose, di superare contrapposizioni e ricucire strappi. Ci permette di isolare il bello da quel che è trash, diritornare col pensiero alle commoventi e suggestive parole di Giovanni Allevi nel momento in cui ci ha trasmesso l’ansia e la gioia di riprendere ad accarezzare, con le mani sofferenti, il pianoforte, dopo più di due anni. Una pagina alta del Festival è stata scritta quando ci ha raccontato quanto possa essere grande ed intenso l’amore per la vita, “dopo aver visto, per giorni, l’alba ed il tramonto da una camera d’ospedale”. Un monito ed una speranza per quanti devono trovare la forza di risollevarsi dopo una tremenda malattia.
Ma il Festival di Sanremo è bello perché è vario. Accanto a questo e a tanti altri momenti di intensa commozione, non è mancato anche qualche neo, comparso come sul viso di ogni bella donna, stando ad un vecchio detto. E così Fiorello ha “preteso” che un personaggio internazionale, del calibro di John Travolta, che avrebbe potuto deliziare il pubblico con una splendida danzatrice del corpo di ballo, si esibisse, invece, in corteo con lui, Amadeus ed altri, in un ridicolo “ballo del qua qua”. Umorismo sotto traccia, ironia surreale, a cui il nostro intelletto non riesce ad arrivare. E, travolto dal qua qua non è arrivato a tanto nemmeno il povero Travolta, di cui comprendiamo, ovviamente, l’irritazione, se non l’indignazione, nonchè la dichiarata rinunzia alla firma per la liberatoria. Allo stesso modo riteniamo pienamente giustificati i commenti negativi della stampa, nei giorni successivi. Sorprende, anzi, che se ne meraviglino Fiorello e lo stesso Amadeus, padrone di casa!
Post scriptum in sospeso per il successore di Amadeus. Se veramente, come oggi sostiene, non condurrà ancora lui il prossimo Festival, bisognerebbe chiedere a questo Signor X se non riterrà utile scindere le due figure, quella del direttore artistico da quella del conduttore. A noi sembrerebbe opportuno per vari motivi, che non staremo qui ad elencare.
Amadeus e Fiorello hanno chiuso questa 74a edizione con un record di ascolti (oltre il 60 per cento di share), la più seguita, la più digitale, la più effervescente che mai (con la lunga coda di polemiche e contrapposizioni di sempre). Ma, per concludere come abbiamo iniziato, con il richiamo agli Antichi, vogliamo ricordare che i due amici sono andati via felici, verso l’Aristonello, mano nella mano, salendo su un grande cocchio dorato, quello degli dei dell’Olimpo, elemento fondamentale della mitologia greco-romanaa. E qui l’ultima delle nostre domande. Metafora della chiusura di un ciclo, fine di un’epoca d’oro? Del resto, la scelta di latinizzare il suo nome da Amedeo in Amadeus, conteneva forse già gli auspici di una favola moderna, destinata a trasformarsi in una favola mitologica.
(Febbraio 2024)
Pensieri ad alta voce
di Marisa Pumpo Pica
La triste vicenda di Giulia Cecchettin
Chi ha avuto modo di seguirci saprà certamente che qui trovano posto quei pensieri che nascono dal desiderio di comunicare con i lettori e con loro condividere sentimenti, immagini, emozioni che, a ruota libera, si agitano nella mente e nel cuore.
Accade anche in questa circostanza, dinanzi alla recente storia drammatica di Giulia Cecchettin, barbaramente assassinata dall’ex fidanzato, Filippo Turetta.
Giorno dopo giorno, il turbamento emotivo, nato dalle prime notizie, fino all’epilogo agghiacciante, si traduceva in questi nostri “Pensieri ad alta voce”, vergati di getto, così come mente e cuore li concepivano, destinati a voi, cari lettori, per un pacato e libero confronto su fatti, ipotesi, commenti. Abbiamo preso tempo, però, prima di pubblicarli. Lo facciamo oggi, dopo tentennamenti e rèmore di varia natura.
Questa drammatica vicenda ci consegna diversi spunti di riflessione, non solo sul caso in sé, molto triste ed amaro, ma anche, e soprattutto, su come si vada trasformando sempre più questa nostra società, nei fatti che accadono e nei commenti che ne seguono.
Sorvoliamo sui dettagli della vicenda, che ha commosso tutti noi, che in Giulia abbiamo visto la figlia, la sorella, la nipote e le tante altre donne, vittime di femminicidio (in Italia, in questo 2023, 110, fino ad oggi). Vogliamo soffermarci, invece, su alcuni elementi che ci hanno colpito, nel tentativo di riportare questo tragico evento entro i confini che gli sono propri, giuridici, culturali e sociali. Il caso, lo abbiamo detto, ha commosso ed appassionato l’Italia, con un ampio contributo della stampa, della radio, delle emittenti televisive e degli immancabili social, che hanno incrementato dibattiti ed accese discussioni. Si è scritto e detto di tutto e di più. Forse anche troppo. Oltre misura, dinanzi al dolore di due famiglie, che hanno visto la vita sconvolta da questa tragedia. È appena il caso di sottolineare come, anche in questa occasione, siano emersi i limiti, la pericolosità e l’invadenza debordante dei social. Si è giunti ad aprire una pagina su facebook per Filippo Turetta, con pochi follower (e meno male!) e molte corbellerie come la dedica della canzone Biko, scritta da Peter Gabriel per il sudafricano, attivista antipartheid (Steve Biko, appunto), morto a causa delle torture subìte in carcere. A nessuno sfugge, senza dubbio, come ingiustificato ed incomprensibile possa essere il raffronto tra Biko e Turetta. Sempre sui social, poi, non sono mancati attacchi alla sorella della povera Giulia, la giovane Elena, accusata di sovraesposizione mediatica e, da taluni, addirittura di strumentalizzazione del suo dolore per preparare le basi di una prossima candidatura alle elezioni europee. Assurdità inaccettabili, insomma. Tali anche le parole fuori luogo di un consigliere regionale veneto, Stefano Valdegamberi, il quale, facendo riferimento alla felpa da lei indossata, parlava di simboli satanici e qualificava come frasi sovversive quelle dalla stessa pronunziate, durante la trasmissione televisiva “Diritto Rovescio”
Ora, dopo tutto questo, sarà forse chiaro il motivo del nostro iniziale silenzio. Più che i ragguagli di una cronaca, ormai ben nota a tutti, ci sono apparsi necessari questi brevi cenni ad alcune cose fatte e dette a sproposito. Poche, per fortuna, rispetto alle tante altre belle espressioni e manifestazioni di un cordoglio, commosso e sincero, nei confronti del padre, della sorella e del fratello della povera ragazza (la madre, purtroppo, è morta nell’ottobre dello scorso anno).
Ciò detto, ritorniamo al nostro assunto iniziale: tentare di riportare il caso nell’ambito che gli compete. Il primo, naturalmente, è quello giuridico. Filippo Turetta è accusato di omicidio volontario, cui quasi certamente verranno associate le aggravanti del legame sentimentale, dato il rapporto affettivo con l’ex fidanzata; della crudeltà, per “l’inaudita ferocia” con cui si è accanito contro la vittima. Non è ancora possibile dire se verranno riconosciuti il reato di sequestro di persona e quello dell’occultamento di cadavere. Il corpo della giovane donna, come è ben noto, è stato ritrovato in fondo ad un dirupo, a circa 50 metri di profondità, rispetto al ciglio della strada, quindi difficilmente visibile, ricoperto da sacchi neri e fogliame, in una sorta di giaciglio naturale, presso il lago Barcis, in provincia di Pordenone. Sarebbe da accertare, ed è invocato e testimoniato dai familiari della vittima, anche il reato di stalking, che egli avrebbe messo in atto nei confronti della ragazza, attraverso telefonate e messaggi pressanti ed ossessivi, un vero e proprio assedio psicologico, esercitato prima e dopo la rottura del fidanzamento. In ultimo, ma non ultimo, resterebbe da considerare l’aggravante della premeditazione, come svariati elementi, significativi nelle indagini, lasciano prevedere.
L’atroce morte di Giulia Cecchettin, lo dicevamo in apertura, ci spinge a riflettere, oltre che sul caso umano, anche sugli aspetti sociali, culturali, educativi che, in questo, come in altri reati di violenza contro la donna, richiedono una reale presa di coscienza da parte di tutti noi affinché il dolore, la commozione, lo sdegno del momento non siano sempre e soltanto l’unica reazione, sporadica ed emotiva, dinanzi ad un femminicidio. Di proposito sorvoliamo sui risvolti politici, che richiederebbero più ampio spazio. per limitarci ad affrontare quanto è accaduto su quei piani a cui innanzi si accennava.
IL VIRTUALE E L'APPARIRE
Forse oggi molti di noi vivono in un mondo che non è quello reale, bensì quello virtuale e dell’apparire, fondato su un consumismo esasperato, dove predominano l’avere più che l’essere, il possedere, più che il dare, insieme ad un ego altrettanto esasperato e smisurato. Un mondo labile in cui il “dentro” e il “fuori” non sempre combaciano. Gli altri spesso ci conoscono solo nel nostro “apparire”, non per come siamo dentro, ma per come ci vedono, per come vogliamo che ci vedano. Di qui il primo dato, eclatante, in questo caso: la sorpresa, che si unisce allo sgomento dinanzi a questo delitto efferato, per cui tutti, insieme ad amici, conoscenti, familiari di lei e di lui si chiedono il perché. Non poteva immaginarlo nessuno e non se lo aspettava nemmeno la stessa povera Giulia che, nei vocali trasmessi dal programma “Chi l’ha visto?”, confidandosi con le amiche, si chiedeva cosa fare e, nella grande generosità del suo cuore, temeva per lui. “Vorrei sparire dalla sua vita”, diceva, e, in un altro, “Vorrei che sparisse. ma ho paura che possa farsi del male.” E… invece Filippo Turetta agiva molto diversamente… Ecco “l’apparire”. Siamo diversi da come gli altri ci conoscono, da quel che pensano di noi. Nessuno avrebbe potuto immaginare che un ventiduenne, un giovane universitario, un “bravo ragazzo, un ragazzo esemplare, che non aveva dato mai problemi, (eppure ne aveva! n.d.r) un ragazzo quasi perfetto”, stando alle parole del padre, si rivelasse nella sua vera identità, attraverso questo crimine spaventoso. Se vogliamo capire a fondo il perché di questo gesto insano, al di là di estreme generalizzazioni o frettolose semplificazioni, dobbiamo riconoscere che il tema dell’evento specifico, oggetto di discussione, si espande dall’individuo alla società, ampliandosi ed articolandosi in varie problematiche che investono la famiglia e, all’interno della stessa, il rapporto genitori - figli, la scuola, la formazione, i modelli culturali e sociali, la comunicazione. Sono tematiche che coinvolgono tutti noi, nella riflessione e nel dolore, oltre ai familiari, di lei e di lui, per chiederci tutti insieme come questa tragedia possa essere accaduta, in che cosa si sia sbagliato, che cosa si sarebbe potuto fare e che cosa ancora si può fare per evitarne di simili. Risposte adeguate a tali angosciosi ed inquietanti interrogativi, a nostro avviso, possono arrivare solo da una riformulazione dei modelli culturali, educativi e sociali.
IL MOVENTE
Nella ricerca del movente, dunque, il nostro bisogno di verità. Nello sforzo di capire fino in fondo questo delitto, riflettori puntati su famiglia, scuola, società.
Il problema, infatti, come abbiamo detto, si amplia nella ricerca delle cause e dello sfondo culturale e sociale che ritroviamo spesso in delitti del genere. Ma non è detto assolutamente che lo sfondo socio-culturale debba essere sempre e soltanto di degrado o sottocultura, può essere anche di apparente normalità. E lo è stato, infatti, anche per tanti altri femminicidi. Su tutto questo, acceso è stato il dibattito. Tante le voci, tante le ipotesi, le ricostruzioni. Noi ne proponiamo una, tentando di fornire un quadro d’insieme, attraverso l’analisi del profilo dei due giovani, della compatibilità di tali profili e del tipo di relazione da loro vissuta. E mentre scrivevamo, ponendoci mille interrogativi, andando avanti, sulla falsariga dei nostri pensieri, i fatti, che via via venivano resi noti, sembravano darci ragione. La nostra ricostruzione è risultata confermata da quanto è successivamente emerso.
Abbiamo cominciato a riflettere, per prima cosa, sul profilo dei due giovani. Lei, che è entrata nel cuore di tutti noi, era una ragazza sempre sorridente, solare, estroversa. “Eterna bambina”, la definisce la sorella, aggiungendo e precisando che la caratterizzava “un senso gioioso della vita, un amore grande per la vita. Eterna bambina, per questo, ma non infantile, anzi sempre decisa e determinata.” Lui, già in parte da noi innanzi descritto attraverso le parole del padre, è un ragazzo che sembra vivere nella normalità di un’esistenza tranquilla. Un po’ introverso, divide il suo tempo tra lo studio e l’amore per lo sport, per la montagna e per la “sua” ragazza, verso la quale si mostra geloso e possessivo, come raccontano gli amici comuni, fornendo dati significativi: “sempre mano nella mano con Giulia e braccio sulla spalla di lei”, a sottolineare il possesso, il concetto padronale dell’amore, aggiungiamo noi. Un profilo piuttosto contorto o, quanto meno, problematico, quello di Filippo Turetta nel quale, stando a queste testimonianze e ai fatti accaduti, sembrerebbero affiorare tratti di un narcisismo non superato. nella ricerca esasperata di valorizzazione del proprio ego, con tendenziali note manipolatrici. È da chiarire che egocentrismo e narcisismo sono tratti naturali nella fase dell’infanzia, che vengono, poi, superati nelle fasi successive del processo evolutivo, quando consapevolezza, responsabilità e maturità di pensiero devono fornirci le armi necessarie ad affrontare le sfide a cui la vita ci sottopone. D’altra parte, se non ponessimo attenzione al profilo del ragazzo, non si spiegherebbe il tentativo incessante di riallacciare una relazione, da lei chiusa, ma da lui mai accettata. Né sarebbe comprensibile, se non in un tale soggetto, l’ulteriore, assurdo tentativo di distoglierla dal conseguimento della laurea, ormai imminente.
Un giovane, con questo profilo, fragile, problematico, non può e non sa accettare rifiuti, ostacoli e, meno che mai, la rinunzia alla parossistica volontà di possesso, di controllo estenuante dell’altro, che porta alla manipolazione.
“Un manipolatore di affetti, fatti e persone”, lo ha definito, infatti, la criminologa, Roberta Bruzzone.
Molto si è parlato, poi, di gelosia e frustrazione. E conveniamo che questi siano stati elementi fondamentali nella dinamica del delitto. Ci sembra, però, semplicistica e riduttiva l’interpretazione che vede Filippo agire sotto la spinta di una frustrazione, dovuta al fatto che la fidanzata giungesse alla laurea prima di lui. La frustrazione c’è, sicuramente, ma è di altra natura e agiva già dentro di lui dal momento della rottura della loro relazione. Si lega al temperamento del giovane, al tipo di amore che egli nutre per Giulia, fondato, appunto, sulla gelosia e sul sentimento nevrotico del possesso. E non si può escludere che alla frustrazione, derivante da questi sentimenti, non si sia aggiunta anche una reale sofferenza: il senso di vuoto totale per la perdita definitiva dell’ex fidanzata. Giulia, infatti, amava disegnare, voleva diventare illustratrice di libri di fumetti per bambini e aveva un progetto ben determinato: frequentare una scuola di fumettistica a Reggio Emilia. Dinanzi ai progetti della ragazza, Filippo più che depresso, come qualcuno ha detto, si sente represso, in quanto privato di quel controllo, finora esercitato su di lei. La sua ragazza andrà lontano da Padova. Andrà altrove e in quell’altrove non ci sarà più posto per lui. Una fuga, un tradimento, agli occhi di Filippo e lui, questo, non poteva assolutamente permetterlo. Per quel sentimento di gelosia ossessiva, parossistica, morbosa che lo divorava, non poteva accettare che lei uscisse alla luce, in piena autonomia, da quel circuito chiuso, buio, in cui, col suo pressing psicologico, aveva pensato di poterla tenere bloccata.
Dall’analisi del profilo dei due giovani alle riflessioni sulla loro relazione e sul tipo di amore che viene vissuto, all’interno di questa relazione, soprattutto, da Filippo, il passo è breve.
LA RELAZIONE. IL CIRCUITO CHIUSO
Proviamo ad entrare nel vivo di questa relazione Una relazione d’amore come un’altra, quella di Giulia e Filippo, ma forse solo apparentemente e magari agli inizi, quando, come tutti i giovani, vanno incontro alla primavera del loro amore con gioia ed entusiasmo. Essi, però, probabilmente la vivono, lo abbiamo appena accennato, come in un circuito chiuso: frequentano lo stesso corso di laurea, Ingegneria biomedica, nella stessa Università, quella di Padova, studiano spesso insieme, anche a casa. Inizialmente, l’amore riempie la vita dei due ragazzi, che si chiudono nel loro mondo, dal quale gli altri sono esclusi o quanto meno lontani dal loro orizzonte, figure sullo sfondo. E così deve essere, per Filippo, ma probabilmente non per Giulia.
Infatti, ad un certo punto, il circuito chiuso si interrompe. Spazio e tempo, vissuti fino a quel momento all’unisono, in piena sintonia, in perfetta simbiosi, non sono più gli stessi per entrambi. Lei sta per laurearsi ed è determinata a chiudere, una volta per tutte, questa relazione, già finita ad agosto, e a proseguire i suoi studi a Reggio Emilia. Dopo la rottura del fidanzamento, è un altro anello di una catena che si spezza. Lui ha ancora degli esami da sostenere. Vede nella laurea di Giulia e nel suo successivo allontanamento un addio alla ragazza che, nel suo amore nevrotico e possessivo, è stata al centro della sua vita, punto di riferimento unico, fondamentale. In questo suo amore distorto, il giorno imminente della laurea segnerà la rottura definitiva non solo della loro relazione d’amore ma anche del loro legame affettivo, un legame che, forse, egli sperava potesse anche permanere sotto altra forma, magari di semplice frequentazione o amicizia. Per chi ha vissuto l’amore come totalizzante la rottura non può essere definitiva. Questo non può e non deve accadere. Il tentativo di distoglierla dal presentarsi alla seduta di laurea è, per Filippo, l’ultima chance. E gioca, infatti, l’ultima carta, proponendole di accompagnarla allo shopping pre-laurea nel centro commerciale. È la trappola, il tranello, pianificato con lucida freddezza, come ritengono molti e come taluni indizi portano a sostenere o, in un primo momento, soltanto l’ultimo, disperato tentativo di non perderla e convincerla a non rinunciare a lui? L’ultimo appuntamento, sfuggito al suo controllo e degenerato in un litigio furibondo e in un delitto senza pietà, con le venti e più coltellate inflitte alla povera Giulia? È questo l’interrogativo terribile, il nodo che dovrà essere sciolto. Compito che, ovviamente, toccherà alla magistratura.
È evidente che questa nostra analisi non vuole ancorarsi a cavilli giustificativi perché nulla e nessuno potrà mai giustificare questo insano delitto. È soltanto il tentativo di capire cosa sia realmente accaduto in quella terribile sera del 10 novembre. Abbiamo cercato unicamente di scavare nel buio insondabile dell’io, in quel sottobosco oscuro nel quale si nascondono le nostre pulsioni, per quel poco che può emergere dalle sabbie mobili della coscienza.
AMORE TOTALE E AMORE TOTALIZZANTE
E a questo punto il nostro pensiero va ai giovani, ragazzi e ragazze, perché possano intendere l’enorme distanza che intercorre fra l’amore totale e l’amore totalizzante e sappiano tenersi lontano da quest’ultimo, che non può dare gioia, anzi procura sofferenza a chi lo gestisce come a chi lo subisce. Sul terreno in cui la gelosia ossessiva attecchisce e cresce, come gramigna, non sboccerà mai il fiore dell’amore. L’amore è dono di sé, non desiderio di possesso e meno che mai di annientamento dell’altro. Alle ragazze, soprattutto, vogliamo ricordare di non scambiare la gelosia per amore. “Mi ama veramente, sapessi come è geloso!”, confidano spesso, compiaciute, alle amiche. Nulla di più errato. Tenetevi lontano da questo tipo d’amore. A genitori ed educatori, poi, tocca il compito di insegnare ai giovani che nella relazione di coppia è importante che la donna non sia mai costretta a rinunziare alle sue aspirazioni, ai suoi progetti, alle sue possibilità di realizzazione, in una parola, alla sia libertà.
L’amore totale per la persona amata, infatti, è quello che ci fa desiderare che l’altro possa realizzare sempre tutti i suoi sogni, che non sia prigioniero dei nostri incubi o delle nostre ossessioni, in una parola, che sia libero e felice. Quando, invece, l’amore, da sentimento forte, che dona sicurezza, che offre protezione e certezze, nella condivisione di un progetto di vita, si trasforma in amore totalizzante, che sottrae e non aggiunge, che pretende e non offre nulla in cambio, finisce col rivelarsi come un amore malato. Un amore tossico, velenoso, che tarpa le ali alla persona amata. Dinanzi a questo amore oppressivo, l’altro fugge via, insofferente, e prende le distanze da questo sentimento che non dona felicità.
Nelle belle parole, scritte su un post dal padre di Giulia, terribilmente provato da questa tragedia, è racchiuso il vero significato dell’amore, totale e non totalizzante, l’amore coma valore e non come ossessione e morte.
Citando i versi di Gaia Maritan, egli scrive “L’amore vero non umilia, non delude, non calpesta, non tradisce, non ferisce. L’amore non picchia, non urla, non uccide”.
QUANDO L'AMORE DIVENTA FOLLIA
Questa è una storia che viene da lontano. Nasce, come si è visto, nell’atmosfera irrespirabile, derivante da un amore malato, fatto di gelosia, divieti ed imposizioni. In questo amore tossico, che avvelena entrambi i protagonisti, c’erano già un carnefice ed una vittima, ancora prima di quella sera del 10 novembre al Centro commerciale. Nell’amore paranoico del giovane, infatti, c’era già il desiderio inconscio di una forma di annientamento psicologico dell’altro e, quando l’altro fugge e non vuole più far parte di quel mondo soffocante, chi ama di un amore totalizzante cerca una forma di compensazione in gesti negativi. È un modo di pensare distorto, ovviamente, che tende all’annientamento non più soltanto psicologico, ma totale dell’altro. Ed è qui il preludio di quella tragedia della quale colui che è stato il regista di questa relazione ossessiva ha già segnato le tappe e l’ultimo atto, con l’orribile epilogo. Con o senza pianificazione. Nel desiderio di possesso, se l’altro sfugge a questo amore e ne prende le distanze, non resta che il ricorso alla sopraffazione, alla violenza, alla morte, come nei tanti altri casi di femminicidio. Non resta che l’ambiguità di un atteggiamento che potremmo definire storico, una vera e propria rappresaglia: “Se mi lasci la faccio finita, mi uccido” o il classico aut aut: “O mia o di nessun altro.” L’ambivalenza è tipica di queste due frasi. Nella prima, il ricatto, nella seconda, la minaccia dell’annientamento dell’altro. Tornando a ripensare ai vocali di Giulia, trasmessi da “Chi l’ha visto?” ce ne rendiamo perfettamente conto. In quella ricerca di un consiglio alle amiche, si nasconde la richiesta di un aiuto. La ragazza appare sola e smarrita, forse anche disorientata ed impaurita. “Vorrei sparire” e, nell’altro audio, “Vorrei che sparisse”. È l’eco di quegli occulti aut aut. In Filippo la trama dell’annientamento dell’altro. In Giulia il desiderio di non esserci più per lui, di reagire e liberarsi per sempre da questo amore soffocante che la disorienta e le devasta l’animo, il desiderio di andare incontro ai suoi sogni, ai suoi progetti di vita e respirare vento di libertà.
Un gesto folle, senza dubbio, quello di Filippo. Un amore totalizzante non costruisce. Distrugge se stesso. Ma, sia ben chiaro, definire folle il gesto non vuol dire che sia folle chi lo compie, come di solito invocano gli avvocati con le richieste di perizie psichiatriche, nel tentativo di ridurre la pena ai loro assistiti. Gesti folli, insani, la storia ce lo insegna, sono compiuti, spesso, anche da persone perfettamente sane di mente, quando “il sonno della ragione genera mostri”.
Nell’attesa del processo ci chiediamo, non senza sgomento, se, soprattutto per quanto concerne la premeditazione, si arriverà mai alla verità, quella ancora chiusa nei labirinti dell’io. Ci si può aspettare che Filippo Turetta ci racconti la verità, quella vera, che egli solo conosce, di quella terribile notte o avremo, piuttosto, anche qui, una manipolazione del vero, magari attraverso i suggerimenti della difesa? Pianificazione del delitto o pianificazione difensiva?
Noi ci auguriamo di cuore che Filippo possa trovare la via del riscatto, che sappia meritare, attraverso una confessione piena e un pentimento sincero, quel sentimento di commozione che, come noi in questo momento, può provare ogni altra madre, dinanzi ad un giovane di appena ventidue anni che, nel distruggere la vita dell’ex fidanzata, ha finito col distruggere anche la sua e quella dei suoi cari.
IL DISCORSO EDUCATIVO
Come già detto innanzi, abbiamo evitato di affrontare il discorso sotto il profilo politico per comprensibili motivi di spazio, ma anche per non scivolare verso facili strumentalizzazioni di una vicenda così triste che vede distrutte due famiglie e, sia pure in modo diverso, la vita di due giovani.
Non possiamo rinunciare, però, al discorso educativo, che più da vicino ci riguarda.
Ci limiteremo, tuttavia, all’essenziale e soltanto a qualche breve annotazione, ripromettendoci di sviluppare tali note in altro momento.
Partiamo, in premessa, dalle parole del padre di Filippo, Nicola Turetta, il cui dolore pur commuove e richiede rispetto e considerazione da parte nostra. Quando parla del figlio, al di là della descrizione che, come padre, ne fa e che noi abbiamo innanzi riportato, egli si chiede “Non so in che cosa abbiamo sbagliato (…) un figlio al quale abbiamo dato tutto quello che potevamo dare.” Estrapoliamo questa frase dal suo primo commento sui fatti, perché è qui il punto nodale del discorso educativo, è qui, proprio in queste parole, la chiave di lettura di quanto accaduto. Volendo limitarci all’essenziale e senza alcuna intenzione di infierire contro questi genitori, che tanto stanno soffrendo, o contro i genitori di oggi e di sollevare dubbi sulla qualità del loro rapporto con i figli, della loro capacità di dialogo e di confronto, rimandiamo il lettore a quanto abbiamo innanzi accennato circa quei modelli culturali e sociali dominanti. Quei modelli, che si fondano sul consumismo esasperato, sull’apparire, sulla gratificazione di un ego altrettanto smisurato, sono sicuramente da rivedere e superare. Riconosciamo che, in una società come la nostra, ciò non è facile e aggiungiamo soltanto che educare è compito arduo e ricade sulla famiglia e sulla scuola, che, insieme alla società, intesa come un complesso di relazioni, sono gli organi deputati alla formazione. Ciò, nella più stretta e costruttiva collaborazione. I fatti di cronaca più recenti ci dicono, invece, che questo rapporto, scuola-famiglia, oggi, è spesso terreno di aspra dialettica, quando non diventa addirittura di scontro aperto in cui si assiste anche a violenze inaudite, verbali e non solo, di genitori ed alunni contro i professori. Educhiamo, invece, ogni giorno, i nostri figli al dialogo e al confronto, pacato e sereno, cercando di essere per loro sempre un modello attivo e propositivo, senza mai dimenticare che dialogo e confronto sono componenti fondamentali nelle relazioni umane e sociali. Con “I no che aiutano a crescere” (come già anni or sono ci suggeriva Asha Phillips, autrice dello splendido libro così intitolato), facciamo in modo che essi si rendano conto, fin da piccoli, che la vita è fatta anche di ostacoli e che le difficoltà, che possono incontrare, oggi o nel futuro, non sono insormontabili, ma vanno superate con l’impegno e la volontà. Ricordiamo loro che occorre obbedire alla ragione, ma anche al cuore. Educhiamoli all’affettività, ai sentimenti, alle emozioni, quelle positive, come quelle negative (gioie o dolori). Dinanzi ad esse devono sviluppare un senso di responsabilità per gestirle, metabolizzarle e, attraverso questo percorso, poter superare quei momenti difficili che la vita, prima o poi, potrà presentarci. Un medico, un giorno, in un dibattito televisivo, chiuse il suo discorso con parole che, da sole, potrebbero sintetizzare il compito dei genitori, dinanzi alle incognite della vita. “Non lasciate che i vostri figli vivano sempre in pianura, teneteli anche ai bordi del burrone, sull’orlo dell’abisso.” Conveniamo pienamente con questa metafora educativa ma, naturalmente, occorre anche, sorvegliare attentamente, in attesa che facciano le loro scelte e raggiungano, pur con qualche nostro suggerimento, consapevolezza e responsabilità. Soltanto così potranno assaporare il senso e il valore della libertà.
Anche il padre di Giulia, che ha commosso tutti e che tutti ormai chiamano papà Gino, ci offre un ultimo spunto educativo. Con le sue parole, ma soprattutto col suo esempio, ci ha mostrato come si può metabolizzare un dolore così grande e come si può trovare, proprio in questo dolore profondo, la forza di testimoniare e di lottare perché non si verifichino più tragedie come queste, perché non si vedano più tante lacrime sul volto e nel cuore di migliaia di persone, come è accaduto ai funerali di Giulia.
(Dicembre 2023)
I CAMPI FLEGREI TREMANO
di Luigi Rezzuti
Negli ultimi mesi le scosse di bradisismo sono in aumento e preoccupano la popolazione residente. L’attenzione è massima e la situazione sismica è costantemente monitorata. I Campi Flegrei sono in allerta gialla da anni e sono in attività costante. Il prof: Mauro Antonio Di Vito direttore dell’Osservatorio Vesuviano, autore di diverse ricerche sulla geologia dei Campi Flegrei e del Vesuvio ha detto: “I Campi Flegrei sono un vulcano attivo con fenomeni bene avvertiti dalla popolazione. I segnali che registriamo sono molto più di quelli che si avvertono, addirittura c’è un arretramento della linea di costa che avviene con la velocità di quindici millimetri al mese. Le aree maggiormente interessate sono quelle di Rione Terra ed il lungomare di via Napoli”. Fortunatamente gli eventi sono di bassa energia e molto superficiali per cui sono amplificati dalla vicinanza e sono maggiormente avvertiti dalla popolazione. E’ una sismicità molto superficiale, alcuni fenomeni addirittura si verificano ad un centinaio di metri sotto le case. Nel biennio 1982/84 il suolo si alzò di un metro e ottanta in soli due anni, infatti fu necessaria una seconda banchina per l’attracco dei traghetti per le isole di Procida ed Ischia. Oggi i Campi Flegrei sono ad un livello di attenzione secondo il piano preparato dalla Protezione Civile di livello giallo, la Solfatara produce tremila tonnellate di anidride carbonica che è un dato molto prossimo ai vulcani a condotto aperto tipo Stromboli o Etna, quindi parliamo di un vulcano che può produrre fenomeni diversi. In generale, se dovesse essere prossima un’eruzione, si osserverebbero una serie di cambiamenti sostanziali, dichiarano alcuni vulcanologi, in primis, si sarebbero variazioni nella sismicità, ovvero “terremoti più frequenti e molto più forti. In secondo luogo, ci sarebbero delle variazioni importantissime nella deformazione del suolo, così come nel contenuto chimico delle emanazioni fumaroliche, nonché nella temperatura sia delle fumarole che del suolo, accompagnate da accelerazioni di gravità importanti. Ma questi sono dati monitorati costantemente, nessuna di queste condizioni si è verificata finora. I terremoti che siano grandi o piccoli, non si possono prevedere in nessun modo con la tecnologia e le conoscenze attuali.
(Ottobre 2023)