Pensieri ad alta voce
di Marisa Pumpo Pica
Festival di Sanremo 2020
Due parole. Due... sul Festival di Sanremo, ma ce ne vorrebbero tante per un evento come questo, che unisce, spacca e divide e che, indubbiamente, non si può ignorare. Da anni, ormai, specchio dei tempi e degli umori di un Paese, ne riflette ansie, timori e turbamenti, nella varietà dei suoni, delle voci e degli interventi.
Non può passare inosservato. Ogni volta, commenti, giudizi, riflessioni e polemiche... Le parole si sprecano, per discuterne il senso e la portata, per evidenziare quanto ci sia di nuovo o di superato nelle canzoni, nella musica… e in tutto il resto.
Esaltato, osannato, da taluni. Da altri criticato. Aggettivato sempre in funzione delle più diverse definizioni, quest’anno sembra prestarsi in modo particolare a due aggettivi più calzanti di ogni altro: infinito ed estremo, per l’eccessiva dilatazione dei tempi e dei contenuti, che talvolta sembravano debordare, pur con punte altissime di audience. Qualcuno, però, ha ritenuto che queste curve di ascolto, per quanto significative, non andassero lette in senso assoluto, ma fossero considerate perfettamente compatibili con un Festival protrattosi tanto a lungo che, per questo, si offriva all’ascolto di più fasce di età e in più diversi momenti di ciascuna serata. In tanti lo hanno seguito, è vero, ma fra un tramezzino ed un panino, tra la cena, il sonno ed il risveglio, per vederne, infine, la conclusione quasi all’alba…
Il Festival, come sempre molto atteso, in questo settantesimo anno, ha fatto da spartiacque tra un passato ed un presente, aprendo nuove strade. E le ha aperte non tanto sul futuro delle canzoni e della musica, quanto per le modalità nel proporlo al pubblico attraverso una conduzione variegata e multipla, anche questa ritenuta un po’ eccessiva, con due co-conduttori, Amadeus e Fiorello, con un ospite fisso, Tiziano Ferro, che ha cantato fitto e ad oltranza, per tutte le cinque serate, e con tante donne, belle, colte, eleganti, raffinate ed impegnate.
Il Festival delle donne, e subito è scoppiato il caso e si è aperto il fuoco contro Amadeus, tra le mille polemiche che, come sempre, lo hanno preceduto.
Che faranno queste donne? Saranno un simbolo della donna immagine? Saliranno sul palco dell’Ariston in funzione della kermesse, per fare, appunto, spettacolo? Per far salire gli ascolti?
Donne alla corte del Re Sole, qualcuno avrà pensato. E invece, no. Chi aveva ipotizzato che la presenza di tante donne sul palco potesse prospettarsi come l’esaltazione della bellezza e non delle capacità femminili, ha dovuto ricredersi. Provenienti da mondi diversi, hanno mostrato, tutte, forza, coraggio e grinta, con i loro interventi. Alcuni monologhi sono stati di sicuro spessore ed hanno rappresentato un momento importante dell’Evento. Qualcuno particolarmente apprezzabile e di intensa commozione, qualche altro, pur con punte significative, nel calcare un pò la mano, è scivolato, forse, nella consueta retorica della donna che, dichiaratamente, vuole e deve difendersi, a tutti i costi, dalla violenza o dalla tracotanza del maschio.
“Cosa ha fatto questo Festival?” Ha chiesto Fiorello, dal palco, fingendo sbalordimento. E la risposta era implicita: “Di tutto e di più”, con tanti ospiti, stranieri ed italiani, che hanno recitato, ballato, e cantato, anch’essi, di tutto, fino all’ultima serata quando, in un momento piuttosto movimentato, è intervenuto il bravissimo tenore Vittorio Grigolo, che ha deliziato il pubblico con una bella pagina di musica classica.
Non più e non solo, dunque, Festival della canzone italiana, con qualche piccolo sacrificio dei cantanti protagonisti, in gara, quanto piuttosto Evento, Spettacolo, Kermesse, da condividere con il mondo, come, in più riprese, ha sottolineato Amadeus.
E qui veniamo a lui. Conduttore e direttore artistico del Festival, ha voluto dividere con il grande amico e versatile showman, Rosario Fiorello, le responsabilità, la gioia e il successo dello spettacolo. In nome di una vecchia e vera amicizia, che dura da trentacinque anni, aveva promesso: “Se un giorno dovessi realizzare il sogno di condurre il Festival di Sanremo, tu dovrai essere con me su quel palco. E, da sincero amico dal cuore generoso, gli ha dato tutto lo spazio possibile, facendo spesso un passo indietro e fingendo, sornione, di adattarsi, alle sorprese dell’amico e alle sue mascherate improvvisate (si fa per dire). Le gag di Fiorello, alcune volutamente forzate, altre simpatiche e non prive di riferimenti ironici, come è nello stile di questo mattatore, che piace a tutti e fa audience, hanno allietato le serate.
E l’Amadeus, amabile, simpatico, compassato conduttore de “I soliti ignoti”, senza rinunziare al suo stile consueto, ha diviso con il fraterno amico momenti seri e scherzosi di un Festival, che riserva sempre mille sorprese e colpi di scena. Tra questi, il Bugexit, come è stato definito sui social, in maliziosa analogia con la Brexit londinese, ovvero il “gran rifiuto” di Bugo di salire sul palco per condividere con Morgan, nella penultima serata, l’interpretazione della canzone “Sincero”. Di qui la susseguente squalifica per entrambi e una lunga coda di polemiche e strombazzamenti vari tra gli improvvisati difensori dell’uno o dell’altro.
Anche in questo un’Italia divisa ed astiosa!
Due parole, due, si era detto in apertura e non abbiamo ancora parlato dei cantanti protagonisti né delle canzoni in gara. Ma ventiquattro canzoni dei big e dodici delle nuove proposte non possono certo trovare spazio, tutte, in questo che voleva essere un breve commento sul Festival. Ci limiteremo, dunque, a qualche flash, a partire dalla figura più discussa, Achille Lauro, di cui tanto si è parlato, prima, durante e dopo Sanremo. E se questo era il massimo obiettivo del cantante, bisogna riconoscere che è riuscito pienamente nel suo intento. Si è voluto vedere di tutto dentro la sua canzone e di tutto si è visto dietro la sua nudità, sed de gustibus non est disputandum... Forse, però, poco dei versi della canzone “Me ne frego” è rimasto nelle orecchie. Almeno nelle nostre.
Ben altre canzoni ci hanno conquistato, attirando la nostra attenzione. e ben altre performance.
Molto bella, dolce e profondamente sentita ci è parsa la canzone di Tosca “Ho amato tutto” che, non a caso, ha meritato il Premio dell’orchestra dell’Ariston. E gli orchestrali, senza dubbio, di musica, se ne intendono!…
Di buon livello anche la performance del giovane Alberto Urso, con la sua calda voce e quel bel canto tutto italiano, espresso nella romantica canzone “Il sole ad est.”
Questo giovane ventiduenne, autentico nella sua semplicità, dal contegno serio e dignitoso, è stato accompagnato, invece, dalle critiche ingenerose di alcuni rappresentanti della stampa.
Apprezzabili, a nostro avviso, anche le interpretazioni di Giordana Angi, nella canzone “Come mia madre”, molto dolce e coinvolgente, di Irene Grandi, “Finalmente io”, dal tono moderno e frizzante, non privo di una vena di gioconda sensualità e quelle di altri ancora, come Michele Zarrillo, “Nell’estasi e nel fango, “Raphael Gualazzi, “Carioca” e lo stesso Diodato, risultato il vincitore del Festival con la canzone “Fai rumore”.
Bravi anche, tra le nuove proposte, i giovanissimi Tecla e Leo Gassman. Quest’ultimo si è aggiudicato la vittoria nella gara finale.
Cantanti, questi, che, come altri, a differenza del “Re nudo”, non hanno avuto bisogno di denudarsi per dimostrare qualcosa. Innamorati delle canzoni, che hanno interpretato, in esse hanno denudato la loro anima.
Ci diranno che siamo nostalgici del vecchio Sanremo e non è così perché anche il vecchio Sanremo ha avuto personaggi un po’ eccentrici e fuori dalle righe, come Adriano Celentano, Vasco Rossi, Renato Zero e tanti altri, che hanno, però, firmato grandi successi.
Ci diranno, ancora, che, con le preferenze da noi indicate, ci riveliamo superati e mostriamo di non sapere cosa significhi essere “contemporaneo”, termine oggi molto in voga, che spesso sentiamo ripetere e che nasconde tutto e niente
Ebbene, sì, forse non sappiamo riconoscere né apprezzare il contemporaneo se essere contemporaneo può significare, incitare alla violenza, all’odio o, magari, anche al razzismo. Ci riferiamo, ovviamente, ad altre realtà e ad altri contesti, nei quali ciò accade, ma non è da escludere che simili atteggiamenti possano serpeggiare, talvolta, anche nel mondo della canzone e, più in generale, dello spettacolo.
E, dunque, siamo ben contenti di sentirci superati e non vicini ad estremismi molto pericolosi, che perfino in un Festival potrebbero, un giorno, annidarsi.
Lo ammettiamo, ci piacciono le belle canzoni e anche il pubblico, in molte occasioni ha mostrato di gradirle perchè cantare l’Amore non fa mai male…
(Febbraio 2020)
Emilio Notte: difficoltà di rinnovare la pittura
di Antonio La Gala
Emilio Notte è forse l'esempio più rappresentativo della difficoltà che la pittura cosiddetta d'avanguardia ha trovato nell'ambiente artistico della Napoli del Novecento.
Infatti quando nel 1929 egli iniziò stabilmente la sua attività a Napoli, sebbene già godesse di una meritata buona notorietà nel mondo dell'arte moderna nazionale di quel periodo e sebbene da quel momento costituisse un punto di riferimento forte e preciso del rinnovamento artistico della città, tuttavia restò completamente isolato in un ambiente che si attardava in temi e forme di stampo ottocentesco, fino al punto che, come si racconta, per circa vent'anni non riuscì a vendere nemmeno un quadro.
Emilio Notte era nato a Ceglie Messapica, vicino Brindisi, nel 1891. Aveva scoperto la sua vocazione per la pittura giovanissimo, quando viveva a Sant'Angelo dei Lombardi, dove il padre era stato trasferito. Nel 1906 venne a Napoli, dove fu allievo dell'Accademia delle Belle Arti, allora diretta da Vincenzo Volpe. Poco dopo si trasferì in Toscana. A Firenze partecipò attivamente al movimento futurista, firmandone un manifesto nel 1917. La sua adesione a quel movimento era però un'adesione sentita intimamente sul piano culturale ed artistico e non l'adesione alle esternazioni chiassose, piazzaiole e snobistiche caratteristiche di quella corrente. Un suo dipinto del 1919, “La strada bianca”, fu il primo quadro futurista acquistato dal Re.
Man mano che negli anni Venti il Futurismo andava attenuando l'impeto degli anni della Grande Guerra, e la pittura italiana andava rinunciando in parte alle sue istanze di avanguardismo, Emilio Notte rielaborava le sue linee espressive, un pò facendo tesoro delle tendenze che man mano si susseguivano (cubismo, espressionismo tedesco, ecc), ma anche mediando con qualche rilettura dell'impressionismo francese. In effetti il senso della sperimentazione accompagnò a lungo la produzione di Notte, che quindi dava la sensazione di attraversare diverse "incarnazioni" stilistiche.
Dopo un soggiorno milanese, nel 1929 il pittore si stabilì definitivamente a Napoli, dove cominciò ad insegnare presso l'Accademia delle Belle Arti, attività che proseguì per 40 anni.
Come abbiamo già detto, inizialmente il suo discorso futurista o comunque di ricerca innovativa, lo isolò. Nel corso del primo ventennio che trascorse a Napoli, fino al 1948, nel suo periodo di maggiore fervore creativo e di ricerca, fece una sola mostra: i suoi quadri non piacevano, non vendeva. Sopravviveva solo grazie all'attività di insegnante e vendendo ogni tanto qualche quadro ad amici. Sebbene fosse quasi isolato rispetto agli altri artisti napoletani coevi, proseguì con tenacia la sua ricerca innovatrice sulla scìa delle correnti allora emergenti, costituendo un momento cruciale di rinnovamento dell'arte napoletana e un forte e preciso punto di riferimento per la nascente pittura moderna locale.
Nel secondo dopoguerra, nel 1958, alcuni suoi allievi (Fergola, Persico, Di Bello, del Pezzo) saranno i fondatori del "Gruppo 58", dopo un quinquennio dall'apertura della sperimentazione dello stile informale.
Emilio Notte nella sua lunga attività partecipò a tutte le più importanti esposizioni sia in Italia che all’estero e attualmente alcune sue opere si trovano nella Galleria d’Arte Moderna di Roma, di Firenze e di Bologna, nonché in Gallerie straniere.
Il critico d'arte Piero Girace a metà Novecento così ce lo descrive: "rassomiglia a Giove Olimpio. Sembra uscito fresco fresco da una statua greca. A simiglianza di certi artisti di altri tempi, ha una barba folta e brizzolata che gli conferisce un'aria terribilmente austera".
Morì nel 1982.
(Dicembre 2023)
Alighiero Noschese. Un artista dimenticato
di Luigi Rezzuti
Alighiero Noschese è nato a Napoli, in via Palizzi, al Vomero, il 25 novembre del 1932 ed è morto il 3 dicembre del 1979, all’età di 47 anni.
Riposa, per sua volontà, nel cimitero di San Giorgio a Cremano.
La città di Roma gli ha dedicato una strada, come ha fatto il Comune di San Giorgio a Cremano, sia a lui che a Troisi.
La proposta di intitolargli una strada a Napoli fu indirizzata a Palazzo San Giacomo, in occasione dell’anniversario della morte dell’artista.
Dopo questa richiesta la commissione toponomastica, nel corso di una riunione, approvò la proposta di intitolare una strada ad Alighiero Noschese, da individuare preferibilmente nella zona collinare della città.
Da allora, sono trascorsi molti anni e, nonostante l’individuazione della strada, cui era connessa l’installazione della lapide con l’intitolazione, non si è saputo più nulla.
Noschese ha frequentato il liceo Pontano e, dopo essersi diplomato, si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza, ove fu allievo, tra gli altri, di Giovanni Leone, il quale, venuto a conoscenza del fatto che quel giovane studente eseguiva magistralmente la sua imitazione, gli chiese di ascoltarla.
Si narra che Noschese avesse sostenuto due esami orali, filosofia del diritto e diritto ecclesiastico, parlando con la voce di Amedeo Nazzari, al primo esame, e con quella di Totò, al secondo.
Dopo aver tentato, senza fortuna, la carriera di giornalista, fu assunto nel giornale radio della Rai.
Negli anni Cinquanta entrò a far parte della Compagnia di Prosa della Rai, alternando l’attività di attore a quella di imitatore.
Garinei e Giovannini gli affidarono alcuni spettacoli come “Caccia al tesoro”, “Scanzonatissima”.
In questi due spettacoli Noschese sperimentò, per la prima volta, l’imitazione di personaggi politici e, paradossalmente, parve non destare irritazione tra i politici imitati, quali Ugo la Malfa, Giovanni Leone e Giulio Andreotti, anzi essi sembravano rallegrarsi per l’effetto di maggior visibilità che si andava creando intorno a loro, grazie a Noschese.
Le cronache raccontano che la madre di Giulio Andreotti avesse visto alla televisione un’imitazione del figlio da parte di Alighiero Noschese così ben riuscita da non accorgersi della finzione, tanto da telefonare al figlio per rimproverarlo: “Ma come ti è venuto in mente di andare a cantare in televisione?”.
La consacrazione avvenne nel 1969 con la partecipazione al varietà televisivo del sabato sera “Doppia Coppia”.
Da quel momento, a detta dello stesso Noschese, pare che molti personaggi della TV, come Mario Pastore, Ruggiero Orlando, Tito Stagno, Ugo Zatterin e della politica gli abbiano espressamente chiesto di essere imitati, sia per acquistare maggior visibilità sia per non essere considerati come personaggi di secondo piano.
L’ultimo programma televisivo cui partecipò “Ma che sera”, condotto da Raffaella Carrà nel 1978, avrebbe dovuto segnare il suo rientro dopo quattro anni di silenzio.
La mattina del 3 dicembre 1979, a 47 anni, Noschese si tolse la vita sparandosi un colpo di pistola alla tempia, nella cappella del giardino della clinica romana Villa Stuart, dove era ricoverato.
Secondo una versione, Noschese, per scherzo, avrebbe simulato al telefono la voce del neurologo che lo aveva in cura, chiamando l’internista, per chiedergli i risultati degli esami clinici e così avrebbe appreso dal sanitario di essere affetto da un cancro inguaribile, che lo destinava a morte imminente.
Alighiero Noschese riposa nel cimitero di San Giorgio a Cremano, in una cappella polverosa, transennata, con l’intonaco pericolante ed invasa da calcinacci.
“Lo’hanno dimenticato. Che peccato! - si rammarica il fioraio di fronte al cimitero – La gente viene a visitarlo, ci chiede dove è la tomba. Eccola: c’è una lucina accesa e un geranio appassito”.
(Gennaio 2021)